Appena otto anni fa (febbraio 2010) la bandiera Afghana veniva issata sopra i tetti sventrati del Bazar di Marjah, città di 80mila anime dell’instabile provincia di Helmand. Qui, i talebani gestivano la formazione e il commercio del 42% della produzione mondiale di oppio.
Allora l’Occidente ammirò orgoglioso la prima grande vittoria dell’esercito afghano, coadiuvato da 6mila marines statunitensi e da altre centinaia di uomini dell’ISAF (inglesi, canadesi e lettoni). La più grande offensiva congiunta di terra dall’inizio della guerra in Afghanistan si rivelò un successo: i talebani vennero ricacciati nelle montagne insieme ai guerriglieri di al-Qaeda. Fu dopo aver dichiarato conclusa l’operazione Moshtarak (in lingua dari: Insieme) che l’ex presidente USA Barak Obama annunciò l’inizio del ritiro delle proprie truppe dall’Afghanistan. Un ritiro avvenuto però troppo in fretta e che non ha tenuto conto di moltissimi fattori. In breve tempo tutte le città della provincia sono tornate saldamente in mano agli insorti, e le eroiche gesta dei soldati afghani e dei marines americani caduti sul campo sembrano essersi vaporizzate. Sui tetti del Bazar di Marjah è tornata a sventolare la bandiera talebana. Lo stesso vale per la città di Babiji, scenario di uno dei più spettacolari assalti aerei britannici dell’era moderna. A Musa Qala, nel Nord della provincia, i talebani gestiscono oggi un vero e proprio governo e a Lashkar Gah, sono abbastanza vicini da lanciare occasionalmente missili nel compound del governatore.
Helmand è dunque la prova più evidente di come la guerra in Afghanistan non verrà mai vinta dagli Stati Uniti.
Oggi le truppe afghane rimaste nella provincia sono alla disperata ricerca di un soccorso. Gli alleati occidentali latitano; ritenendo, non senza ragione, che un ulteriore incremento di truppe straniere non farebbe che gettare nuovi giovani nelle braccia dei talebani e dei signori della droga. “Anche se uccidi tutti gli adolescenti, la prossima generazione si unirà ai Talebani”, ha detto Abdul Jabbar Qahraman, ex inviato presidenziale di Helmand intervistato dal Guardian. “L’insurrezione era principalmente un business. Ora si tratta anche di vendetta.”
È finito il tempo delle grandi battaglie campali; quando i talebani possedevano addirittura pezzi d’artiglieria. Oggi lo scontro si è tramutato in pura guerriglia fatta di attacchi rapidi e violenti; mentre i cannoni hanno lasciato spazio ad ordigni rudimentali preparati dai guerriglieri nei loro rifugi. Le truppe afghane sono assediate all’interno dei centri urbani e hanno abbandonato le campagne. Gli integralisti islamici hanno ormai conquistato una consistente porzione di territorio, oltre che i cuori e le menti di gran parte della popolazione. “In tutta Helmand, nuove moschee stanno spuntando, finanziate da uomini d’affari privati. Le scuole governative, tuttavia, sono vuote e decrepite.” Ha detto Haji Baz Gul, leader di una delle tribù che all’epoca scelse di imbracciare le armi contro le milizie del Mullah Omar. “Abbiamo quasi 2mila madrasse talebane. Il governo è troppo debole. Gli americani si sono ritirati troppo presto pagando soltanto un terzo dei miei uomini.” Molti di loro sono fuggiti di fronte alla riconquista talebana, altri invece hanno deciso di unirsi ai ribelli.
Gli attacchi dei giorni scorsi nella capitale Kabul hanno dimostrato l’inconsistenza delle truppe afghane addestrate dagli Stati Uniti e dai loro alleati Nato. Nello stesso tempo però le cause che si celano dietro questi ultimi attacchi rivelano le molteplici spaccature che si celano tra i movimenti insurrezionali. Dopo la morte dal Mullah Omar (avvenuta del 2013 ma resa nota soltanto nel 2015) il movimento ha subito diverse scissioni; ufficialmente la leadership ufficiale dell’Emirato Islamico è concentrata nella Quetta Shura, che ha base in Pakistan. Attualmente il comandante supremo della Quetta Shura è Haibatullah Akhundzada ma sono in molti a non riconoscerlo come legittimo successore del Mullah Omar. Nel proprio “testamento” il Mullah aveva formalmente disconosciuto lo Stato Islamico del califfo al-Baghdadi e auspicava per i suoi uomini la continuazione di una lotta per la liberazione dell’Afghanistan dalle ingerenze straniere, senza per questo disdegnare eventuali forme di negoziato col governo democratico. Discorso diametralmente opposto rispetto a quello teorizzato dal califfato che prevede una guerra santa globalizzata e senza possibilità di resa.
A creare una spaccatura tra le varie componenti del movimento talebano è stata dunque l’ascesa dello Stato Islamico del Khorasan (IS-K). Composto da veterani delle guerre in Siria e in Iraq (in particolare Uzbeki e Tajiki), l’IS-K ha velocemente guadagnato consenso tra quei talebani più affascinati dal carattere religioso della guerriglia piuttosto che da quello politico-nazionalista teorizzato dal Mullah Omar e dal suo successore Haibatullah. Dal 2015 ci sono stati numerosi scontri tra talebani e Daesh che hanno visto spesso trionfare le milizie del califfo. Come ha spiegato recentemente il ricercatore Antonio Giustozzi, le forze in campo dei talebani sono circa 15 volte più numerose dei miliziani dello Stato Islamico. Proprio per questa ragione le vittorie dell’IS-K contro i talebani hanno risuonato tra gli afghani portando molti di loro ad unirsi ai miliziani di al-Baghdadi. L’umiliazione subita dai talebani ha creato numerose defezioni e fratture interne al movimento. Dopo le sconfitte rimediate dai loro “fratelli” in Siria e in Iraq, oggi l’IS-K sembra aver perso slancio iniziale.
A complicare un quadro già estremamente contorto ci ha pensato un terzo attore di questa tragedia chiamata Afghanistan. Si tratta della Rete Haqqani: 15mila uomini addestrati nel Waziristan al confine col Pakistan, in passato finanziati dalla CIA per contrastare i Sovietici. Dopo aver sostenuto la causa talebana e quella di Al-Qaeda, oggi gli Haqqani rifiutano categoricamente ogni tipo di accordo col governo di Kabul. Nello scontro tra talebani e IS-K pare che abbiano deciso di allearsi coi secondi. Ci sarebbero loro dietro all’attacco alla sede di Save the Children nella capitale afghana. I legami degli Haqqani col Pakistan hanno insospettito il governo afghano che non ha esitato ad accusare i pakistani di essere in combutta coi terroristi. La motivazione si celerebbe dietro al mancato rinnovo degli aiuti americani destinati al Pakistan per contrastare il terrorismo.
Si tratta dunque di uno scontro a tre (Talebani, Daesh, Haqqani) giocato principalmente sulla propaganda. Ma in quell’angolo martoriato del mondo la propaganda si costruisce a suon di bombe (discorso che vale anche per l’Occidente). Kabul è la capitale, frequentata da moltissimi occidentali, colpire Kabul significa non solo colpire l’odiato straniero invasore, ma anche ottenere maggiore visibilità. Proprio per questo gli attentati dei giorni scorsi sono stati rivendicati ora dagli uni, ora dagli altri.
Se la provincia di Helmand è lo specchio nascosto di quello che sarà l’Afghanistan del domani, Kabul è invece il palcoscenico insanguinato su cui ognuno degli attori sale per recitare il proprio mostruoso monologo e dimostrare così la propria forza.