Sui 189 paesi presenti nell’indice dello sviluppo umano (Hdi) stilato dal Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), il Ciad figura al 187° posto. Nonostante N’Djamena possa contare su importanti riserve di idrocarburi (le decime per estensione in Africa), su una popolazione totale di circa 16 milioni l’85,7% vive al di sotto della soglia della povertà. Con un punteggio di 39,6 nell’indice globale della fame (Global Hunger Index, Ghi) il paese risulta al 113° posto su 116: 2,2 milioni di persone soffrono di malnutrizione e 3,7 milioni sono in condizioni di insicurezza alimentare. Ex-colonia francese, quinto paese per estensione in Africa, il Ciad versa in uno stato di pressoché costante instabilità sin dalla sua indipendenza nel 1960.
Piagato da numerose guerre civili e interstatali, il paese si configura come uno fra i più poveri al mondo, eppure sembrerebbe essere la chiave di volta della stabilità nel Sahel. Le sorti del Ciad, infatti, si intrecciano con quelle della vicina Libia, del Sudan, del Mali, del Burkina Faso, della Nigeria e del Niger. Se si parla di stabilità del Sahel non si può quindi prescindere dal Ciad. Il vuoto di potere causato dalla recente morte del presidente Idriss Déby, in carica da 30 anni, è quindi foriero di preoccupazioni per i paesi del Sahel e i loro alleati occidentali, Francia in primis. Se le crescenti tensioni fra Bamako e Parigi dovute in parte al ridimensionamento della presenza francese nel Sahel e in parte alla crescente influenza che Mosca esercita in Mali e nell’Africa sub-sahariana riecheggiassero in Ciad, l’esito potrebbe essere drammatico. Un nuovo fronte di instabilità, in una posizione strategica come quella del Ciad, non solo metterebbe a rischio la tradizionale sfera di influenza europea ed occidentale in Africa sub-sahariana, ma lascerebbe anche spazio a nuovi attori internazionali più spregiudicati, decretando così il clamoroso fallimento della politica estera Europea ed Atlantica nel continente.
Idriss Déby, il presidente condottiero e la sua diplomazia militare
Idriss Déby sale al potere nel 1990, scalzando l’allora Presidente Hissène Habré. Il paese è stremato da dieci anni di conflitto con il regime di Gheddafi e da una sanguinosa guerra civile. Déby promette allora una democratizzazione del paese che di fatto non avverrà mai. Già nel 1998 una ribellione guidata dall’ex-generale e alleato del Presidente, Youssouf Togoimi, prenderà forma nel nord del Ciad ai confini con la Libia. Se l’opposizione si arma, Déby accentra il potere attorno a sé: le posizioni apicali nel governo sono tutte ricoperte da membri del suo stesso partito, il Mouvement Patriotique du Salut (Mps), e della sua etnia di origine, gli Zaghawa.
I ribelli sfruttano però la porosità dei confini fra il Ciad e il Sudan, trovando rifugio nel vicino Darfur e preparando da lì le loro azioni, come lo stesso Déby aveva fatto prima di prendere il potere nel 1990. Frattanto nascono due movimenti armati in Sudan, il Movimento di Liberazione del Sudan (Slm) e il Movimento per la Giustizia ed Eguaglianza (Jem) che lottano per l’indipendenza del Darfour. Déby tenta inizialmente di ostacolare il loro operato di concerto con Khartoum, ma aumentano le pressioni in seno al suo gruppo etnico poiché sia il Jem sia l’Slm sono composti maggioritariamente da Zaghawa. A partire dal 2003 N’Djamena si trova quindi coinvolta in una guerra per procura con Khartoum, dove entrambi i paesi supportano attivamente i ribelli del campo opposto.
Dal punto di vista interno Déby, per rimanere al potere, intesse delle reti clientelari piuttosto estese, che garantiscono la tenuta del regime. La scoperta di importanti giacimenti di petrolio negli anni 2000 e il loro sfruttamento a partire dal 2004 accrescono sensibilmente il budget del Ciad: nel 2004 N’Djamena ha a disposizione dei fondi 50 volte superiori a quelli del 2000. Questi fondi non vengono però utilizzati per lo sviluppo del paese, bensì per estendere i rapporti clientelari e per rafforzare l’apparato militare, tanto che la Banca Mondiale sospenderà i progetti iniziati in Ciad. Déby intanto continua ad accumulare potere e cariche: segretario del partito di governo, presidente e comandante in capo delle forze armate vince le elezioni nel 1996, 2001, 2006, 2011 e 2016. Il presidente modifica la costituzione nel 2005 e 2018, elimina la figura del primo ministro e si arroga la facoltà di nominare ministri, membri della Corte Suprema e persino della Corte costituzionale. L’opposizione non trova spazi per esprimersi ed è costantemente repressa. Il Ciad detiene anche un triste primato, dal 2006 ad oggi è il paese che più a lungo ha bloccato l’accesso ai social (principalmente Facebook e WhatsApp), per un totale cumulativo di ben 911 giorni secondo Amnesty International.
I tentativi dei ribelli di rovesciare il regime di Déby nel 2005 e nel 2008, arginati da un intervento in extremis della Francia che dal 1986 dispone di una presenza militare stabile in Ciad, convincono l’esecutivo a investire massicciamente nell’apparato di sicurezza. A partire dal 2004 la spesa militare del Ciad quadruplica: Déby acquista materiale militare da più di 12 paesi fra cui aerei da combattimento, elicotteri d’attacco e artiglieria pesante, cambiando significativamente i rapporti di forza con i ribelli. Nel 2009, contestualmente ad un riavvicinamento fra N’Djamena e Karthoum, gli insorti, già fiaccati da divisioni interne, vengono progressivamente schiacciati dal regime. Déby fino alla sua morte si presenterà innanzitutto come un leader militare. Prima di scalzare Hebré dal potere ne comandava l’esercito, e divenuto presidente non esita a partecipare in prima persona ad operazioni militare. Déby si trova sul campo di battaglia nel 2006, nel 2008 e ancora nel 2019 mentre argina l’avanzata dei ribelli verso N’Djamena con il sostegno delle truppe francesi. Ancora nel 2020 guida una contro-offensiva sulle rive del lago Ciad contro Boko-Haram e non sorprende quindi che sia morto proprio sul campo di battaglia, in un’operazione contro gli insorti del Front pour l'alternance et la concorde au Tchad (Fact) il 20 aprile 2021.
Le relazioni fra N’Djamena e Parigi sono da sempre strutturate attorno alla cooperazione militare: la posizione strategica del Ciad permette infatti alla Francia di intervenire rapidamente sul continente africano in caso di crisi. Pertanto, in cambio del consueto pacchetto composto da assistenza militare, equipaggiamento, supporto logistico e addestramento delle truppe, l’Esagono dispone dello spazio aereo, di alcune basi e degli aeroporti militari del Ciad. I rapporti tra i due paesi si erano però sensibilmente inaspriti nel 2012, dopo l’annuncio dell’allora Presidente François Hollande di voler ricalibrare le relazioni della Francia con i paesi della Françafrique, viste anche le accuse di violazione dei diritti dell’uomo che pendevano su Déby.
Questo basta per convincere l’élite di N’Djamena che per garantirsi l’indispensabile supporto della Francia la posizione strategica del paese non basta più. L’occasione per rinsaldare il legame con Parigi arriverà però poco dopo con l’Operazione Serval (2013) prima e Barkhane (2014-oggi) dopo. Nel contesto dell’intervento in Mali, la Francia non solo avrà la necessità di distribuire i costi delle operazioni con altri partner internazionali, ma cercherà la legittimità che solo un paese Africano può dare, onde non essere accusata di un ritorno a politiche estere di impronta neo-coloniale. Ecco che il Ciad diventerà uno dei principali contributori, in termini di truppe, sia di Minusma (dispositivo delle Nazioni Unite) sia della Forza congiunta del G5 Sahel (FC-G5S). Dei circa 13 000 soldati di Minsuma, 1 718 provengono dal Ciad che contribuisce anche con 1200 uomini (su un totale di 5000) alla FC-G5S. Non solo: assieme a Camerun, Niger e Nigeria il Ciad fa anche parte della Forza Multinazionale Mista (Fmm) che combatte dal 2012 Boko Haram nel bacino del lago Ciad.
Il Ciad nel 2014 contribuirà perfino all’intervento francese nella vicina Repubblica Centro Africana. Il quartier generale di Barkhane sarà stabilito non a caso a N’Djamena, come forma di riconoscimento del ruolo indispensabile del Ciad. Grazie alla diplomazia militare di Deby, il Ciad è riuscito quindi ad imporsi non solo come interlocutore imprescindibile nelle questioni legate alla stabilità del Sahel, ma è anche riuscito ad assurgere a vera e propria potenza regionale nell’arco di soli dieci anni. L’appoggio della Francia al regime ciadiano è quindi pressoché incondizionato, come testimonia nel 2019 l’intervento della Francia che sbaraglia una nuova avanzata degli insorti verso N’Djamena.
Una fragile giunta al potere
La morte del principale artefice della diplomazia militare ciadiana, nonché la chiave di volta un pervasivo sistema clientelare dal ruolo potenzialmente stabilizzante rischia di creare un pericoloso vuoto di potere che fa spirare i venti dell’incertezza. Alla morte di Déby, un gruppo di 15 generali autocostituitosi Consiglio militare di transizione ha prontamente scelto il figlio del defunto presidente, il trentasettenne Mahmat Déby, per guidare il paese in questo momento di crisi. La giunta, dopo aver sciolto governo e parlamento ha abrogato la costituzione ed ha annunciato che avrebbe guidato il paese per un periodo di 18 mesi, rinnovabile una sola volta, durante il quale avrebbe organizzato un dialogo nazionale inclusivo prima di passare le redini ad un governo civile a seguito di nuove elezioni. Cinque mesi dopo, il 21 settembre 2021, Déby junior annuncia la formazione di un nuovo parlamento di transizione, composto da 95 membri.
Se il paese non è sprofondato nel caos come alcuni temevano, una buona parte dell’opposizione rimane tagliata fuori e non tutti i gruppi armati cui il presidente ha teso la mano hanno accettato di disarmarsi e partecipare al dialogo nazionale. I partner internazionali del Ciad, in particolare la Francia e l’Unione Africana, hanno dato il loro appoggio alla giunta viste le condizioni eccezionali in cui versa il paese, ma questo supporto è condizionale ad un passaggio ad un governo civile nei tempi impartiti. Il giovane Déby però, pur avendo nominato un civile (Albert Pahimi Padacké) come primo ministro durante la transizione, non ha escluso una dilazione dei tempi se alcune condizioni non fossero riunite. Secondo un report dell’International Crisis Group, in seno al partito di governo (l’Mps) che detiene meno della metà dei seggi della nuova Assemblea, si sarebbero creato un certo malumore per il timore che la giunta voglia prendere il controllo dell’istituzione che per trent’anni ha determinato la vita politica del Ciad. Il dialogo nazionale, che dovrebbe iniziare questo novembre, sarà però di breve durata visto che dovrebbe concludersi già a dicembre per poi lasciare spazio alle elezioni a settembre del 2022.

Per il momento il giovane Déby tiene ben salde le redini del paese, e già a maggio del 2021 gli insorti del Fact sono stati respinti oltre i confini. Questa fase di relativa calma potrebbe tuttavia non durare, soprattutto in vista delle elezioni. Nonostante i notevoli investimenti nell’apparato militare, il Ciad presenta comunque dei significativi elementi di fragilità. A maggio di quest’anno erano aumentate le tensioni fra N’Djamena e Bangui dopo che truppe della Repubblica Centro Africana, accompagnate da mercenari russi del gruppo Wagner, avevano attaccato una postazione dell’esercito ciadiano (Armée Nationale Chadienne, Ant) durante l’inseguimento di un gruppo di insorti che aveva varcato il confine fra i due stati. Il 4 agosto 26 uomini dell’Ant hanno perso la vita in un attacco di Boko Haram, il secondo per importanza dopo quello di marzo 2020 che aveva causato ben 100 vittime fra i militari, a riprova del fatto che la questione della penetrazione del gruppo terroristico nella regione del lago Ciad è ben lungi dall’essere risolta.
L’attacco di marzo per altro ha determinato il ritiro di metà del contingente ciadiano dalle forze dell’FC-G5S, nell’ottica di un “rischieramento strategico”. Ancor più importante, vista la centralità dell’Ant nella tenuta del paese, è il crescente malcontento delle truppe circa la repressione dei due gruppi insorti basati in Libia, il Fact e l’Union des Forces de la Resistance (Ufr). Entrambi i gruppi armati sono infatti composti da uomini appartenenti al gruppo etnico Zaghawa, lo stesso dei Déby e di buona parte dell’esercito che pertanto percepisce il conflitto come fratricida. Durante l’incursione dell’Ufr nel 2019, fermata con l’aiuto della Francia, alcuni ufficiali si sarebbero rifiutati di combattere e avrebbero perfino aiutato l’avanzata dei ribelli. Se l’esercito è stato dotati di strumenti ed armi all’avanguardia il suo impiego su svariati fronti inizierebbe a fiaccare il morale delle truppe. Inoltre, il netto favoritismo dimostrato nei confronti di militari ed ufficiali percepiti come vicini al regime acuisce ulteriormente le tensioni in seno all’Ant e ostacola una progressione interna su base meritoria. La coesione dell’esercito, dominato dal gruppo etnico Zaghawa, è quindi debole e i problemi di indisciplina frequenti: secondo un rapporto dell’International Crisis Group i militari tenderebbero a fare affidamento a ufficiali che conoscono e che appartengono alla medesima etnia più che alla gerarchia militare.
C’è la questione delle riserve aurifere delle montagne del Tibesti, nel nord-ovest del paese. La scoperta di giacimenti d’oro ha infatti attirato nella città di Miski numerosi stranieri in cerca di fortuna, causando tensioni inter-comunitarie. Alla creazione fra il 2018 e il 2019 di gruppi di autodifesa locali, N’Djamena ha risposto con il pungo di ferro, inviando l’esercito (guidato per altro dal giovane Déby). L’arrivo dei militari però non ha fatto che gettare benzina sul fuoco: gli uomini dell’Ant, già reticenti ad operare nella zona, sono stati accusati dai gruppi locali di gestire il traffico del metallo prezioso accordandosi con i minatori. Il malcontento locale unito alla presenza di incentivi economici potrebbe dunque costituire un valido incentivo alla ribellione.
Oltre alla presenza di numerosi gruppi insorti al confine con la Libia, ci sono poi le tensioni inter-comunitarie nell’est del paese, già sfociate in episodi di violenza nel 2019. La crescete sedentarizzazione degli allevatori arabi del nord nelle regioni del Uaddai e del Sila ha infatti creato forti rivendicazioni identitarie nelle comunità sedentarie di agricoltori. L’origine di queste tensioni è indissociabile dal conflitto in Darfur. Le milizie pro-governative dei famigerati Janjaweed, che hanno avuto una parte importante nel conflitto per procura scoppiato nel 2000 fra Ciad e Sudan, solevano infatti reclutare uomini proprio fra le comunità nomadi al confine tra i due paesi. N’Djamena anche in questo caso ha reagito duramente imponendo lo stato d’urgenza nelle due regioni. La restrizione delle libertà individuali ha certo ridotto il numero di scontri e il tasso di criminalità, ma ha anche generato un diffuso malumore senza risolvere la questione. Nuove elezioni potrebbero dunque riaccendere le tensioni e minacciare la stabilità nell’est del paese.
La delicata scommessa delle elezioni
I prossimi grandi appuntamenti per il paese saranno dunque il dialogo nazionale di novembre e le elezioni di settembre prossimo. Se Déby non ha escluso la possibilità di rinviare le elezioni, il rischio di perdere l’appoggio degli alleati occidentali è considerevole. Parigi e Washington hanno potuto chiudere un occhio sino ad ora sulle violazioni dei diritti umani, la riduzione delle libertà civili e la repressione dell’opposizione, ma non è detto che possono continuare a farlo sine die vista anche la ristrutturazione della loro presenza nella regione e su scala mondiale. D’altro canto, Déby può contare sull’importanza strategica delle sue truppe nella regione del Sahel, e il ritiro di metà del contingente dell’Ant impiegato nelle forze della FC-G5S potrebbe essere interpretato come un messaggio agli alleati internazionali. Su tutto il processo elettorale aleggia poi il timore di influenze esterne. Mentre la presenza cinese in Africa è ormai un fatto, la Russia è già riuscita ad estendere la propria rete di influenza in numerosi paesi vicini, fra cui Il Sudan e la Libia. Nella Repubblica Centro Africana i russi hanno sfruttato proprio il periodo elettorale per penetrare nel paese. Il nuovo presidente potrebbe quindi ricevere offerte allettanti, che lo allontanerebbero dai più tradizionali alleati internazionali. Se questo accadesse il perno della strategia della Francia nel Sahel potrebbe andare perso, compromettendo lo sforzo collettivo europeo ed atlantico.
Sul piano più strettamente interno non indire le elezioni comporta però dei rischi interni, vista la precaria stabilità del paese e l’insurrezione nel nord. Senza il provvidenziale aiuto della Francia, N’Djamena potrebbe presto arrivare a tiro degli insorti. Anche indire delle elezioni comporta dei rischi, perché il ricorso alle urne potrebbe riaccendere numerosi focolai di tensioni inter-comunitarie mai veramente spenti. Quale che sia la decisione del Presidente e dell’élite di governo, il giovane Déby ha davanti a sé un percorso in salita. La morte del padre ha lasciato un vuoto che dovrà essere presto colmato: ristabilire le reti clientelari che tengono unito il paese è essenziale, affinché i meccanismi dello stato neo-patrimoniale non si inceppino.