Quando un colpo di Stato prende piede in un Paese come il Mali non è mai una bella notizia. I carri armati lungo strade presidiate da uomini in divisa, in contesti contrassegnati da società fragili e da equilibri politici precari, hanno l’effetto di una vera e propria incudine sulla stabilità. Per la verità questa volta gli abitanti di Bamako, la capitale del Mali, forse nemmeno si sono accorti del golpe. Un po’ per un’inquietante abitudine, essendo il terzo in nove anni e il secondo in nove mesi, un po’ perché l’azione dei militari è stata portata a termine senza sparare un colpo. Ciò non toglie però che quanto accaduto rischi di gettare nel caos il Paese africano e, con esso, l’intera regione del Sahel già provata da anni di jihadismo e dalla recente morte del presidente del Ciad, Idris Deby.

Cosa sta succedendo nel Mali

Ancora una volta tutto è partito dalla base militare di Kati, situata poco più a nord di Bamako. Da qui ad agosto sono usciti i mezzi blindati che hanno poi circondato i palazzi istituzionali del Mali per rimuovere l’allora presidente Ibrahim Boubacar Keita, al potere dal 2013. Come mente di quell’operazione in quell’occasione è stato indicato il generale Assimi Goita. Quest’ultimo è poi diventato un mese dopo vice presidente. Il 25 maggio scorso è stato di nuovo lui a far muovere i soldati ed a far arrestare il successore di Keita, ossia quel Bah N’Daw il cui nome in estate ha messo d’accordo tutti nel momento di scegliere la guida del Mali per la fase di transizione. Assieme al capo di Stato provvisorio è stato arrestato anche il premier Moctar Ouane. Entrambi adesso si troverebbero rinchiusi all’interno della base di Kati e da qui, come indicato dal sito Lsi Afrique, hanno rassegnato ufficialmente le dimissioni.

Il potere provvisorio è quindi passato nelle mani del generale Goita. Ma la partita non sembra affatto essersi già chiusa. Dopo la notizia del colpo di Stato a livello internazionale si è levato un coro di critiche verso l’azione dei militari. A partire da quelle pronunciate martedì da Bruxelles, dove era in corso il consiglio europeo, dal presidente francese Emmanuel Macron: “Condanno quello che è a tutti gli effetti un colpo di Stato dentro un colpo di Stato”, ha dichiarato il capo dell’Eliseo. Al Palazzo di Vetro è prevista una riunione del consiglio di sicurezza dell’Onu sulla vicenda, mentre a Bamako martedì è volato l’ex presidente nigeriano Goodluck Jonathan, mediatore della Cedeao, l’organizzazione degli Stati dell’Africa occidentale. Quest’ultimo dovrebbe incontrare sia il generale Goita che il presidente destituito.

Il Mali essenziale per la stabilità del Sahel

Come mai la comunità internazionale ha da subito condannato il colpo di Stato? In agosto non andata così: la stessa Francia, ex madrepatria coloniale, non ha difeso fino in fondo l’allora presidente Keita pur essendone un sostenitore. Poche settimane fa invece da Parigi e dal Palazzo di Vetro nessuna parola era stata pronunciata dopo l’uccisione in Ciad del presidente Idris Deby. Appare quindi evidente una differenza nel comportamento rispetto ai precedenti episodi. Il motivo va probabilmente cercato nella delicatezza della situazione in cui si trova il Mali. Il Paese dal 2012 vive costantemente sotto la minaccia jihadista e dalle sue regioni settentrionali, le stesse dove quasi dieci anni a un certo punto le sigle terroristiche avevano fondato dei veri e propri califfati, la minaccia islamista arriva a coinvolgere l’intera regione del Sahel.

Bamako è quindi uno snodo cruciale nella lotta al terrorismo. Due golpe ravvicinati potrebbero indebolire ulteriormente le già fragili istituzioni centrali e, di riflesso, portare a gravi conseguenze nella battaglia contro le sigle islamiste. Dalla stabilità del Paese africano dipende quindi quella dei vicini. La Francia è presente in modo pesante sotto il profilo militare già dal 2013, quando con l’operazione Serval ha aiutato l’esercito maliano a riprendere le regioni settentrionali. La missione ha successivamente assunto la denominazione di “Barkhane” ed è tutt’ora in corso. Parigi, dal 2013 in poi, ha pianto la perdita di 55 uomini.

I rischi per gli italiani

Da alcuni mesi in Mali è presente anche l’Italia. Già nel 2019 era stato dato il primo via libera alla cosiddetta missione “Takuba”, rispondendo positivamente alla richiesta francese di allargare l’operazione Barkhane ad altri Paesi europei. Oltre all’Italia, anche altri governi, tra cui quello britannico e tedesco, hanno aderito alle istanze di Parigi. Da parte sua Roma sta puntando molto sulla presenza nel Mali. Appena un mese fa il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si è recato a Bamako per una visita istituzionale, il 20 maggio invece, cinque giorni prima del golpe, è stato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ad atterrare nel Paese africano.

Buona parte degli interlocutori di Di Maio e Guerini sono stati deposti. E questo non può che creare perplessità per il proseguimento della missione Takuba e per la sicurezza dei nostri uomini nel Mali. Anche perché le forze italiane saranno dislocate soprattutto nella regione di Liptako-Gourma, comunemente nota con il nome di “area delle tre frontiere”. Qui, nel cuore del Sahel, si innestano infatti i confini di Mali, Burkina Faso e Niger, tre Paesi in difficoltà nella lotta al terrorismo. Se a Bamako dovesse regnare l’incertezza, anche da queste parti le conseguenze politiche e militare potrebbero assumere contorni molto gravi.

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