Essere un paria della comunità internazionale ha i suoi vantaggi. Soprattutto in Medio Oriente, dove le fedeltà sono volatili, le alleanze mutevoli e gli interessi in perenne evoluzione. Lo dimostra la recente penetrazione del Cremlino nel Paese più “caldo” del momento, quell’Iraq che ha vissuto in contemporanea le battaglie decisive contro l’Isis, il tentativo di secessione del Kurdistan e un anticipo di guerra civile nel momento in cui l’esercito regolare ha strappato il controllo di Kirkuk e dei pozzi petroliferi ai reparti peshmerga.

Già alleato decisivo della Siria di Bashar al-Assad, Vladimir Putin ha visto in quel turbine di eventi l’occasione per ampliare la già notevole influenza della Russia in Medio Oriente. Con il governo centrale di Baghdad e con il premier sciita Haider al-Abadi i rapporti erano già molto buoni. Nel 2014 l’Iraq ha siglato con la Russia un accordo per la fornitura di armamenti del valore di 4 miliardi di dollari e da allora gruppi di specialisti russi lavorano come istruttori degli ufficiali iracheni.

Ma dopo la disastrosa esperienza del premier Nur al-Maliki e la lunga guerra contro l’Isis, che hanno devastato soprattutto le province sunnite, l’Iraq ha più che mai bisogno di investimenti esteri. La Russia ha colto al volo l’esigenza. Tra il 23 e il 25 ottobre Ibrahim al-Jafaari, ministro degli Esteri dell’Iraq, si è recato in visita a Mosca. L’incontro ha prodotto una serie di accordi relativi a impianti elettrici ed idrici, pozzi di petrolio ed impianti per l’estrazione del gas, forniture di macchinari e di pezzi di ricambio in cui le aziende russe godranno di una corsia preferenziale. Il Cremlino, in cambio, si è impegnato a concedere a Baghdad ingenti prestiti a condizioni di favore.

Nello stesso tempo, e cioè proprio mentre esplodeva la crisi del Kurdistan, Putin ha firmato attraverso Rosneft, con il Governo regionale, una serie di contratti per l’esplorazione e la messa in produzione di giacimenti di gas e petrolio. Con queste mosse la Russia si appresta quindi a giocare un ruolo decisivo nello sviluppo dell’industria energetica irachena e intanto accresce la propria influenza sul mercato mondiale del petrolio e del gas.

Il paradosso è che tutto questo è avvenuto mentre Rex Tillerson, segretario di Stato degli Usa ed ex amministratore delegato di ExxonMobil, una delle “sette sorelle” del petrolio, riusciva a litigare con il premier iracheno Al-Abadi a proposito delle Unità di mobilitazione popolare, le milizie sciite organizzate e addestrate dall’Iran che hanno partecipato alle spedizioni anti-Isis. Tillerson le ha definite “milizie iraniane in Iraq” e ha detto che “dovrebbero tornarsene a casa”; Al-Abadi le ha polemicamente chiamate “patrioti iracheni”. Il problema degli Usa è chiaro: legati a doppio filo all’alleanza tra Israele e Arabia Saudita, sono costretti a considerare ostile qualsiasi mossa dell’Iran, a prescindere dalle conseguenze. Il che complica maledettamente la vita al premier (sciita) Al-Abadi, che deve fare i conti con l’influenza crescente che l’Iran esercita nella regione e che sta diventando pressante anche nella regione di Kirkuk.

Al-Abadi sta con fatica cercando di tenere l’Iraq in una posizione di equidistanza dai grandi contendenti della regione, Arabia Saudita e Iran, senza compromettere i rapporti con le potenze come Usa e Russia. Gli Usa gli chiedono di schierarsi, la Russia no. Questo perché la Russia stessa, alleata di ferro di Assad e amica dell’Iran che ha a suo tempo aiutato a siglare con Obama l’accordo sul nucleare del 2015, pratica con cura una politica delle mani libere e rifiuta di prendere posizione nel contrasto tra sunniti del Golfo Persico e israeliani da un lato e sciiti iraniani e libanesi dall’altro.

Putin ha relazioni tiepide ma corrette con Benjamin Netanyahu e Israele (e infatti non è mai intervenuto, se non per via diplomatica, quando lo Stato ebraico ha condotto incursioni in territorio siriano contro Hezbollah) e ai primi di ottobre ha accolto a Mosca, per una visita ufficiale di Stato senza precedenti, il re saudita Salman, il quale si è spinto a dire che “su molti problemi regionali e internazionali i punti di vista di Arabia Saudita e Russia coincidono”. Nulla di tutto questo ha però impedito a creature tipicamente putiniane come Rosneft (petrolio) e Gazprom di siglare nei giorni scorsi con l’Iran, arci rivale sia per i sauditi sia per gli israeliani, un accordo da 30 miliardi di dollari nel settore dell’energia. Per l’Iran è una boccata d’ossigeno, visto che il più importante contratto firmato finora è quello con Total France per un valore di 4,8 miliardi di dollari mentre il settore iraniano dell’energia, secondo gli esperti, avrebbe bisogno di almeno 200 milioni di dollari di investimenti entro il 2021 per girare a pieno ritmo. Ma, soprattutto, si tratta di un esempio importante per i mercati internazionali, che vorrebbero fare affari con Teheran ma sono intimiditi dall’ostilità degli Usa di Donald Trump e dalla possibilità che gli americani varino una nuova tornata di sanzioni.

La penetrazione politico-commerciale nel Kurdistan iracheno e nello stesso Iraq, d’altra parte, serve a Putin anche per bilanciare il successo ottenuto dagli Usa nell’appoggiare le milizie dei curdi siriani del Rojava che, dopo essere stati i liberatori di Raqqa, chiederanno con forza anche maggiore a Bashar al-Assad di vedersi assegnata una regione autonoma all’interno di una Siria diventata federale. Per gli americani sarebbe una “base” perfetta per tenere d’occhio Siria e Turchia e influenzarne i futuri eventi. Cosa che infatti rende prudente Assad e furibondo Recep Erdogan, che considera i curdi siriani null’altro che una variante del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), ovvero di un movimento che giudica terroristico. Tutto è in movimento, dunque. E nel movimento ancora una volta il Cremlino sembra più agile della Casa Bianca.