Nella giornata di venerdì 18 novembre il Cremlino ha accusato i soldati ucraini operanti nel villaggio di Maklivka, nell’oblast di Lugansk annesso dalla Russia nello scorso settembre, di aver giustiziato più di 10 prigionieri di guerra in seguito alla diffusione di un video sui social media che secondo il Ministero della Difesa di Mosca sarebbe proveniente dalla linea del fronte.
Il filmato sembra mostrare un gruppo di soldati russi che emergono da una dependance nel parco di una casa con le mani sopra la testa prima che gli venga detto di sdraiarsi a faccia in giù. In un’istantanea successiva si vedono una dozzina di corpi giacere senza vita con una ferita al capo.
Per i russi, e in particolar modo per l’ex presidente Dmitri Medvedev, la mossa rappresenterebbe un crimine di guerra barbaro ed efferato. Anzi, avendo formalmente la Russia annesso queste regioni contro il volere di tutte le nazioni del pianeta eccetto Siria, Bielorussia, Corea del Nord e Nicaragua, che hanno dichiarato validi i referendum del 30 settembre scorso, Medvedev ha chiesto l’applicazione della legge di guerra russa e del diritto penale interno contro i responsabili del misfatto, invitando Vladimir Putin a sospendere la moratoria di fatto sulla pena di morte.
Sul campo ucraino la risposta è arrivata innanzitutto via infowar e social media: la dichiarazione di fatto degli account riconducibili ai sostenitori del governo ucraino, soprattutto su Twitter, non è stata una smentita secca. Si punta il dito sul fatto che tra i soldati arresisi almeno uno avrebbe simulato la deposizione delle armi per poi aprire il fuoco contro gli ucraini. Da qui sarebbe seguito un conflitto a fuoco conclusosi con la morte di tutti i prigionieri. Il primo video in cui si vedono i russi distesi a terra finisce bruscamente e per gli ucraini questa è la prova dell’avvenuto “tradimento”.
Secondo la Convenzione di Ginevra, l’uccisione di prigionieri a sangue freddo è un crimine di guerra, ma lo è anche la falsa resa. “Né la posizione né l’identità delle persone presenti nel video potrebbero essere immediatamente verificate in modo indipendente”, ha sottolineato il Guardian per mezzo del suo reporter bellico più qualificato, Daniel Boffey. Nel suo articolo Boffey riporta che “il ministero della Difesa ucraino non ha risposto a una richiesta di commento” del quotidiano inglese e solo nel tardo pomeriggio del 20 novembre il governo di Volodymyr Zelensky ha smentito seccamente. Ma ormai i buoi sembravano già scappati dalla stalla e Kiev non appariva, a prescindere dalla realtà dei fatti, in controllo della narrazione.
Il video dei soldati russi uccisi era apparso già in precedenza nei canali Telegram ucraini come rivendicazione dell’operatività delle forze ucraine nel Donbass. E inizialmente si presentava il ritrovamento dei corpi senza vita come l’effetto di un bombardamento con mortai da 120 millimetri.
In seguito un’altra versione è stata promossa: un mitragliere ucraino avrebbe supervisionato alla cattura dei prigionieri col compito di uccidere tutti i prigionieri in caso di finta resa. Questo sarebbe avvenuto e tutti i militari russi caduti nelle mani ucraine sarebbero morti per colpa del gesto avventato di uno solo.
La “legge del taglione” non farebbe venire meno la logica del crimine di guerra. Ma guardando al video coi militari morti viene difficile, con una semplice indagine balistica, pensare che possa esser stata una mitragliatrice attivata per reazione al tradimento di un soldato arreso la causa di tutte le uccisioni.
Nella smentita Kiev ha scelto di dare via libera a una delle versioni chiaramente emerse in queste convulse giornate: quella della finta resa. Il commissario per i diritti umani del Parlamento ucraino, Dmytro Lubinets, ha negato che le forze di Kiev abbiano ucciso prigionieri di guerra russi, sostenendo che i soldati ucraini si stavano difendendo dal nemico che aveva finto di arrendersi.
Dunque da un lato abbiamo video che mostrano prima dei prigionieri sdraiati e poi dei corpi morti e dall’altro un sistema ucraino che smentisce la versione russa dell’omicidio a freddo adattandosi, piuttosto che crearne una nuova, alla narrazione emersa sui social. Questa asimmetria non deve però farci propendere automaticamente per un’attestazione dell’avvenuta esecuzione di un crimine di guerra deliberato, anche se ci invita ad alcune considerazioni.
Primo punto: la giustificazione di molti “info-warriors” ucraini circa il fatto che a un crimine di guerra (la finta resa) si sarebbe risposto con l’uccisione dei prigionieri è evidentemente priva di fondamenti reali.
Secondo punto: l’unità operante nella zona di Maklivka è l’80° Brigata d’Assalto dei Paracadutisti ucraina, tra le migliori dell’esercito di Kiev, protagonista dell’offensiva meridionale di fine estate. Non avendo a disposizione dati che sull’intelligence con fonti aperte possiamo aggiungere alle ipotesi il fatto che, indipendentemente dalla veridicità del video, la scelta del luogo indicato da Mosca come sede dell’eccidio potrebbe essere a suo modo strumentale, finalizzata a gettare in cattiva luce un’unità che tanto ha messo in difficoltà le sue truppe in passato.
Terzo punto: come nei casi delle fosse comuni di Izyum e Bucha e del presunto bombardamento all’ospedale Mariupol, si attende un’analisi approfondita e vagliata dei dati Osint per capire se emergeranno altre prove. L’infowar delle due parti aggiunge complessità su complessità e bisogna ragionare solo su dati reali.
Quel che è certo è che la guerra sta andando incontro a un grave imbarbarimento. L’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Unhcr) e Matilda Bogner, capo della missione di monitoraggio dei diritti delle Nazioni Unite in Ucraina, hanno riportato sistematici abusi e torture da entrambe le parti sui prigionieri di guerra. La cui uccisione è spesso un punto di non ritorno per alzare l’asticella dei conflitti e delle inimicizie. Anche il caso dell’eccidio di Lugansk ha già prodotto un risultato: rendere ancora più profonde le trincee di odio tra i belligeranti. E questo avvicina il conflitto a un’ulteriore esasperazione.