Un terzo del paese è stato occupato dall’ISIS e, stracciate e bruciate le bandiere nere del califfato, ciò che resta è la polveredelle pietre cadute, di un deserto che arriva fin dentro le città sotto forma di macerie e di devastazione; il riferimento è all’Iraq, che ha oramai concluso le operazioni contro i miliziani fedeli ad Al Baghdadi ed ha liberato ogni metro quadrato del suo territorio, spingendo via dalle sue lande polverose quei terroristi che dal maggio 2014 fino a pochi mesi fa hanno tenuto sotto scacco l’intera nazione. Ma adesso arriva forse il momento più difficile: da un lato, vi è da ricostruire il tessuto sociale del paese, evitando ciò che è accaduto negli anni passati tra vendette trasversali e guerre settarie, mentre dall’altro lato vi è materialmente da rimettere a posto le pietre in quelle città devastate dalla guerra. Due necessità che devono andare di pari passo, pena la riemersione di quel mostro dalla bandiera nera che ha ucciso e falcidiato intere comunità ed intere città.

La conferenza per la ricostruzione a Kuwait City

Chissà se la sede scelta per far incontrare i paesi donatori sia stata o meno casuale; per parlare di come rimettere al più presto in piedi le città irachene, è stata scelta quella Kuwait City che, inevitabilmente, non può che richiamare alla mente l’agosto del 1990 e la prima guerra del golfo: è qui che la guardia repubblicana di Saddam Hussein ha messo piede in quella calda estate, aprendo la prima grave crisi tra Baghdad e Washington culminata poi con il breve conflitto del febbraio 1991. Oggi tra i grattaceli di questa città affacciata sul Golfo, si discute sulle sorti future dell’Iraq; sono presenti molti paesi, rappresentati sia da esponenti politici che da imprenditori, così come a partecipare vi sono anche i rappresentanti dell’ONU, dell’UE e della Banca Mondiale. Il governo iracheno, assieme a quello kuwaitiano, fa gli onori di casa: nella relazione diffusa ad apertura dei lavori, l’esecutivo di Baghdad fa sapere di stimare ad una cifra vicina agli 88 miliardi il valore della ricostruzione.





Una somma esosa e spaventosa, ma che da sola non basta a descrivere la devastazione in cui versano le province liberate dalla presenza dell’ISIS; queste cifre infatti fanno riferimento alla ricostruzione di quanto distrutto, ci vorrà ancora dell’altro affinché si possano finanziare anche i progetti di recupero delle varie attività produttive perse ed andate distrutte durante l’occupazione del califfato. Secondo le autorità irachene, nell’immediato servono almeno 23 miliardi, da subito poi servirà progettare per far arrivare gli altri 65 nel medio periodo; è una vera e propria rincorsa contro il tempo: mancano servizi, mancano strade, sono state distrutte le condutture idriche e dell’energia elettrica, diversi villaggi sono adesso comunità fantasma. L’emblema della distruzione è certamente Mosul, per quasi tre anni ‘capitale’ del versante iracheno dello Stato Islamico e rasa al suo dai bombardamenti della coalizione a guida USA, con l’accanita resistenza islamista che ha costretto anche al sacrificio di interi quartieri adesso tutti da rifondare.

E’ su Mosul che indubbiamente si concentreranno tutte le energie più importanti: terza città dell’Iraq, capitale culturale ed economica del nord del paese, la sua ricostruzione servirà per rilanciare le sorti di quella parte del territorio dove fino a pochi mesi fa sventolavano le bandiere nere del califfato. Per gli iracheni, far rivivere Mosul è quanto mai essenziale anche sotto un profilo prettamente simbolico: far riprendere la vita in questa città, vuol dire essere in grado di arrivare a ricostruire ogni angolo del paese. Non sarà comunque semplice: l’Iraq è stato dissanguato da otto anni di guerra contro l’Iran tra il 1980 ed il 1988, poi è arrivata la prima guerra del golfo, seguita dall’embargo che ha provocato l’abbandono di molte infrastrutture, infine tutte le varie vicende storiche partite dalla guerra scatenata da Bush junior nel 2003; l’ISIS, in poche parole, ha colpito un paese già profondamente indebolito e che adesso necessita di ingenti piani di investimento per poter aspirare quanto meno alla normalità.

Gli USA si tirano indietro sulla ricostruzione

La domanda sorge spontanea: chi tirerà fuori i soldi per ricostruire l’Iraq? Le autorità di Baghdad hanno nel petrolio non solo l’unica fonte pesante di reddito, ma anche l’unico elemento positivo di questi anni visto che l’estrazione di greggio dal paese mesopotamico è aumentata; per il resto però, il governo deve fronteggiare una grave crisi di budget derivante dal costo della guerra al califfato, il quale ha contribuito a creare un deficit attuale di bilancio di circa 19 miliardi di dollari. Dunque, l’Iraq deve necessariamente trovare fonti esterne di finanziamento per la ricostruzione tanto immediata quanto a lungo termine; ma ecco che, proprio su questo fronte, a spiccare è l’assenza degli USA: Washington ha disertato le stanze della conferenza di Kuwait City e non sembra proprio una casualità. Gli Stati Uniti hanno infatti fatto sapere di non voler sborsare un centesimo per la causa irachena; una posizione inaspettata tra i palazzi del potere di Baghdad, ma che in un certo senso appare in linea con la scelta di smobilitarsi militarmente dall’Iraq per dirottare uomini e mezzi nel più turbolento Afghanistan.

Pur tuttavia, ed è questo a causare i maggiori malumori da parte dell’esecutivo iracheno, è vero anche che gran parte dei danni per i quali oggi serve la ricostruzione sono stati causati dagli USA: Mosul è stata in gran parte distrutta dai bombardamenti americani, molte infrastrutture sono state danneggiate dalle operazioni militari del 2003 effettuate dall’aviazione a stelle e strisce, così come in generale la responsabilità della destabilizzazione del paese è da attribuire alla guerra che quindici anni fa ha tirato giù il governo di Saddam Hussein, aprendo le porte all’estremismo islamico ed alla formazione di gruppi armati quali l’ISIS. I soldi per rimettere in sesto l’economia irachena, potrebbero dunque arrivare in gran parte dall’Iran, grazie alla forte componente sciita dell’esecutivo di Baghdad, così come dalla Cina; i paesi del golfo sono pronti a fare la loro parte, tranne che un Arabia Saudita indispettita dalla vicinanza dell’Iraq con i rivali di Teheran.  La Banca Mondiale e le Nazioni Unite, da canto loro, predisporranno diversi piani di finanziamento ma, a giudicare da quanto emerso a Kuwait City, ricostruire l’Iraq equivarrà di fatto ad autentica impresa.

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