Sono 150mila gli uomini delle forze armate russe impiegati tra il confine con l’Ucraina e la Crimea. Questo è quanto ha rivelato in conferenza l’Alto rappresentante dell’Unione europea, Josep Borrell, secondo il quale le truppe di Mosca avrebbero allestito anche ospedali da campo e si sarebbero attrezzati con ogni mezzo lungo tutta la frontiera.
Difficile confermare i numeri descritti dal funzionario europeo. Quello che è certo, tuttavia, è che attualmente il Cremlino ha deciso di mostrare alla Nato, e in particolare modo agli Stati Uniti, di non essere disposto a d’arretrare di fronte a una possibile escalation del conflitto nel territorio dell’Ucraina orientale. Ed è una decisione su cui Vladimir Putin non può certamente tornare indietro: semplicemente perché in quella guerra in Ucraina si è giocato e continua a giocarsi forse gran parte della sua strategia nel continente europeo e nei rapporti con i Paesi vicini.
La scelta obbligata di Mosca
La guerra nella parte orientale dell’Ucraina e l’annessione della Crimea rappresentano in questo momento i pilastri dell’agenda strategica russa in Europa orientale e nel Mar Nero. Impossibile una trattativa che preveda un cedimento su questi due punti, tanto più se si pensa che lo stesso presidente russo ha voluto confermare la linea della fermezza dall’inizio del conflitto, quando ha deciso di inviare i suoi uomini nelle repubbliche separatiste e di riconoscere il referendum in Crimea rendendola un territorio sotto l’autorità di Mosca. Scelte per cui la Russia ha pagato un prezzo altissimo non solo a livello finanziario ed economico, ma anche a livello politico. Ma nonostante tutto, Mosca è andata avanti senza battere ciglio, quasi a voler ribadire che questa guerra rappresenta una linea rossa che non può essere oltrepassata né da parte dell’Alleanza atlantica né da parte della Federazione.
La scelta per Mosca è quasi obbligata. Il Cremlino non poteva permettersi, ai tempi di Euromaidan, un governo ostile che facesse da leva per la Nato ai confini con la Russia. Ed è chiaro che la tutela delle minoranze russe e delle entità separatiste abbia rappresentato per Putin uno strumento fondamentale per costruire un cuscinetto che evitasse la presenza di truppe ostili alle “porte di Mosca”. L’allargamento a est della Nato per la Russia è un problema: equivale ad avere potenze ostili sempre più vicine. E nella sindrome da accerchiamento che da sempre caratterizza la strategia della Difesa russa è evidente che vedere un Paese considerato tra i suoi fedelissimi entrare nell’orbita occidentale è la conferma di quel timore atavico che circonda chiunque governi il Cremlino.
Costi e benefici
Per Mosca è una guerra di logoramento dai costi enormi, ma anche con dei benefici quantomeno nel medio termine. Dal punto di vista dei costi, è chiaro che sorreggere un conflitto mentre la propria sfera di influenza si riduce in Europa rende sempre più difficile mantenere il controllo su tutti i fronti aperti. Nell’ultimo anno, il terremoto in Bielorussia sembrava addirittura portare a un nuovo regno del caso in un altro protettorato di Mosca. Mentre i territori della sua vecchia sfera di influenza cadono sotto l’ombrello atlantico, la Russia vede avvicinarsi sempre di più il nemico in una sfida che è numericamente sempre più difficile, contro un blocco che la circonda e che si espande ai suoi confini. Attualmente si aggiunge poi il problema dell’economia: la situazione finanziaria russa è estremamente delicata e le sanzioni occidentali sono una spada di Damocle per la classe media del paese. Sanzioni che si sono ulteriormente rafforzate con l’arrivo di Joe Biden.
Ma per il Cremlino la guerra ha avuto anche diversi benefici. Il primo è dato dal fatto che questa forma di conflitto ibrido su larga scala in un Paese vicino ha reso impossibile per Kiev impegnarsi nell’allineamento con la Nato. La penetrazione russa ha creato instabilità in Ucraina corrodendo la tenuta dello Stato e costruendo le premesse per repubbliche de facto autonome, ma ha soprattutto escluso che le truppe Nato potessero entrare in Ucraina senza evitare che tutto ciò facesse sprofondare il mondo in un conflitto aperto tra Russia e Alleanza atlantica. L’asimmetria del conflitto ha così costretto i due schieramenti a confrontarsi in modo più o meno circoscritto e fatto sì che la Russia non intervenisse direttamente e ufficialmente come avvenuto invece in Crimea. E questo ha comportato effetti positivi anche sul piano diplomatico: ad oggi è impossibile per qualsiasi potenza occidentale trattare con l’Ucraina senza seguire le regole dettate dall’agenda russa.
È chiaro che questo può portare a un ulteriore allontanamento di Mosca dall’Occidente, ma allo stesso tempo è una carta perfetta per Putin, che può non solo rafforzarsi personalmente sul piano internazionale con il resto del mondo, ma anche su quello interno: tenere il punto blinda la sua leadership. In un momento in cui il presidente degli Stati Uniti attacca ripetutamente la politica russa, è del tutto evidente che questo porti non tanto a un sostegno agli oppositori, quanto a un abbraccio dell’opinione pubblica intorno al capo. E questo aiuta anche l’informazione veicolata dal Cremlino, che può considerarsi a tutti gli effetti la vittima di una campagna orchestrata dalla Casa Bianca.
Una guerra molto più complessa
Questa complessità del rapporto tra costi-benefici è dimostrata anche dalle differenze radicali tra la situazione in Crimea e quanto sta avvenendo ancora oggi nel Donbass. In Crimea, Putin ha voluto tagliare subito corto mantenendo le forze già di stanze nei maggiori centri militari connessi alla Russia e assicurando il pieno sostegno al referendum per la secessione. Il Cremlino si è garantito subito la presenza navale nel Mar Nero messa a repentaglio dall’uscita di Kiev dagli accordi con Mosca e da possibili accordi con la Nato o con gli Stati Uniti. In ogni caso la mossa di Putin in Crimea è stata quella della guerra-lampo: un blitz senza colpo ferire per avere il pieno controllo della penisola assicurando l’accesso “ai mari caldi”, i porti della flotta del Mar Nero e una posizione di forza con l’Ucraina per lo stretto di Kerch.
Questione totalmente diversa al caso dell’Europa orientale, dove non solo la presenza russa è rappresentata dagli “omini verdi”, ma esiste anche una forma di conflitto che è perfettamente integrata nelle strategie russe, a partire dalla dottrina Gerasimov. Una strana guerra senza fine, senza vincitori né vinti, ma con l’assoluta certezza che per la Russia, in questi territori al confine, non deve arrivare l’artiglieria della Nato.