Dmitrij Medvedev non è di certo un outsider del political system russo, sebbene la sua carriera sia relativamente recente. I suoi esordi affondano le radici a San Pietroburgo al seguito del riformista Sobčak e al fianco di Putin, di cui è stato un prezioso collaboratore. Eletto agli inizi degli anni Duemila presidente della Gazprom, è stato a capo del cerchio magico di Putin e, dal novembre 2005, ha ricoperto il ruolo di primo vicepresidente del governo federale, fino al marzo 2008, quando è stato eletto alla presidenza della Federazione russa succedendo a Putin, il quale nel marzo 2012 gli è subentrato nella carica ottenendo il suo terzo mandato. Nel maggio successivo il neoeletto presidente lo nominò premier, incarico che ha rimesso nel gennaio 2020 con l’intero esecutivo.

Il moderato che piaceva all’Occidente

Negli anni abbiamo imparato a conoscerlo come una sorta di moderato che nel 2009 addirittura faceva sperare in una rivoluzione gentile in quel di Mosca. “La libertà è meglio della non libertà”, aveva detto in campagna elettorale: sembrò davvero l’inizio di una nuova era culminata in una intesa cordiale con Barack Obama. L’ex presidente Usa arrivò perfino a descriverlo “un alleato affidabile” nella sua biografia. Il tutto condito da una certa propensione per la grisaglia alla occidentale, da una scatenata passione per il rock dei Deep Purple, una fascinazione per il mondo tecnologico americano: il celebre selfie con Obama, intenti a consumare un hamburger in un fast food sembrò l’immagine iconica di quel reset tanto cercato fra Washington e Mosca.

Come è potuto accadere che quell’uomo sobrio, se non filoccidentale quanto meno non anti-occidentale, tendenzialmente liberale, ora si esprime a suon di “bastardi e imbranati”, assicurando che “finché sono vivo, farò di tutto per farli sparire”, critica le sanzioni anti-Russia definendole “illegittime” contro i familiari dei politici, paragonandole ai metodi mafiosi e citando la ‘ndrangheta e Cosa Nostra, bolla il piano di pace un prodotto di “grafomani europei”, giurando che la Russia continuerà “a lottare per un ordine mondiale che si adatti alla Russia e al nostro popolo, libero dai teppisti nazisti, dalle bugie storiche e dal genocidio”?.

La propaganda di guerra

Tutto un po’ troppo, perfino per la propaganda di guerra. Senza dubbio Medvedev sta parlando al fronte interno, verso il quale non può mostrarsi né moderato tantomeno super partes: come uomo delle istituzioni, questa guerra è anche sua. Si tratta di una dose rincarata di nazionalismo con il fine di riunire, compattare, cementare il sentimento nazionale: è un mezzo per preparare il terreno a quanto potrà accadere dopo, indipendentemente dal fatto che possa trattarsi di una vittoria, una pace imperfetta o un’ulteriore escalation militare.

Per farlo, usa lo stereotipo dell’occidente corrotto e libertino, del degrado morale e politico. E lo fa, per paradosso, da uno strumento come Telegram che, assieme a tutti i suoi simili, è la nuova essenza della comunicazione occidentale, se non fosse stato inventato da un russo, come fa notare Mirko Mussetti dalle pagine di Limes. L’app di messaggistica, tra l’altro, è molto diffusa in Russia e questo spiega perché le sue parole sono state vergate proprio lì e non su altri canali come Twitter o Facebook.

La crociata personale

Ma a meno che non si sia trattato di un nicodemita pluriventennale, Medvedev prepara il suo futuro politico. La strategia è quella di preparare il dopo-Putin per il quale si candida come leader credibile e padre dell’inevitabile ricostruzione diplomatica ed economica del Paese. La sua posizione è in ombra da tempo e il suo ruolo sembra essere incagliato in quello di bella statuina: l’unico incarico che gli è rimasto è quello di vicepresidente del Consiglio di sicurezza. Insomma, regna ma non governa. Sembra che Medvedev “stia cercando di dimostrare la sua rilevanza – e lealtà – in un sistema che è diventato notevolmente più aggressivo e meno tollerante nei confronti delle sfumature di grigio”, ha affermato Ben Noble, professore associato di politica russa presso l’University College di Londra.

Quello che traspare è una sorta di “sindrome da fratello povero”, in questo caso meno falco degli altri, che in questi anni lo ha lasciato indietro rispetto a siloviki del calibro di Nikolai Patrushev. Pertanto, occorreva un cambio di passo, un “ci sono anch’io” che si nutre essenzialmente di un linguaggio aggressivo che cavalca la dicotomia “noi contro voi”. A ben vedere si è trattato di un’escalation verbale progressiva, che ha visto progredire la virulenza di accuse e aggettivi nel corso di un periodo brevissimo: il suo account Telegram è stato aperto solo il 17 marzo con una dichiarazione secondo cui la Russia ha “abbastanza potere per mettere al loro posto tutti i nemici sfacciati del nostro Paese”. Il 12 maggio, è stata la volta dell’agghiacciante avvertimento sul rischio di una guerra nucleare su vasta scala. Il 30 maggio gli è toccato avvertire il nemico che, se l’Ucraina avesse lanciato attacchi missilistici contro la Russia con i sistemi degli Stati Uniti, Mosca avrebbe risposto con attacchi ai “centri decisionali” in Occidente. Poi, è stata la volta di lasciare i social per dichiarare ad Al-Jazeera che nelle circostanze attuali “i cavalieri dell’apocalisse sono già in viaggio e solo ora possiamo riporre fede in Dio”.

Potrebbe essere già tardi per questo “ravvedimento tardivo”. Ma soprattutto, potrebbe essere lo stesso Cremlino a volere Medvedev fuori dai giochi: non è sfuggito a nessuno, infatti, che il 13 maggio scorso, solo due ore dopo aver gettato alle ortiche il piano di pace italiano, la Tass si sia affrettata a battere la dichiarazione del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, una sorta di smentita indiretta: “Non abbiamo ancora esaminato il piano, confidiamo di riceverlo presto da canali diplomatici”. L’episodio, passato in secondo piano per via degli sviluppi successivi e dei toni più gravi dei giorni a venire, è stato un segno importante su come Medvedev probabilmente non è più né un protégé tantomeno un delfino.