Lugansk non si è dichiarata indipendente di punto in bianco. Lo era già nel 1990, a pochi mesi dal collasso dell’Unione sovietica. A ricordarlo sono un documento della Cia, redatto nei mesi difficili della transizione Ucraina, e uno studio poco noto ai più, in Occidente, sulla grave situazione delinquenziale e di corruzione che investì l’Ucraina nei primi anni Novanta. 

Come Inside Over ha già raccontato, i territori oggi chiamati “separatisti” e “filorussi” erano e sono importanti centri minerari ed industriali. Lo erano ai tempi dell’Unione sovietica e, nel 1949, rappresentavano le fondamenta del rilancio economico dell’Urss dopo la Seconda guerra mondiale. 

Erano anche popolati da russi. E cioè da molti lavoratori delle miniere e da altrettanti deportati dell’arcipelago Gulag, per citare Solzenicyn. Alla liberazione dalla prigionia vi si stabilì una comunità sopravvissuta al crollo dell’Urss e ancora oggi radicata. Talmente radicata che, nel 1990, il governo ucraino aveva assicurato a Donetsk e Lugansk autonomia amministrativa in cambio di lealtà a Kiev. Il problema dell’indipendentismo non è dunque venuto a galla nel 2014, perché le due repubbliche riconosciute da Mosca a fine febbraio erano, di fatto, regioni autonome sin dagli anni Novanta. 

Ed è qui, nel Bacino del Donec, che nacque anche il partito che più ha influenzato la vita politica ucraina per oltre un ventennio, il Partito delle Regioni. “Storicamente, il Donbass non ha mai fatto parte dell’Ucraina”, si legge nel documento della Cia, un dettagliato servizio della Literaturnaya Gazeta datato 30 ottobre 1990 e scrupolosamente riportato dall’intelligence statunitense. 

All’epoca, si legge nell’articolo, nella grande confusione del finire della Guerra fredda, in Donbass risuonano echi indipendentisti: “Oggi si ricomincia a parlare della Repubblica sovietica di Donetsk–Krivoy Rog e, soprattutto, dell’autonomia territoriale che vi era nel sistema sovietico”. La Repubblica di Donetsk–Krivoy Rog è stata una breve esperienza politica, creata l’indomani della Rivoluzione d’ottobre dai bolscevichi per poi essere assorbita, nel marzo 1918, dalla repubblica socialista d’Ucraina. 

Il quotidiano russo raccoglie anche un parere, più di spessore, quello di Vladimir Cheker, Capo dipartimento di Filosofia dell’istituto agricolo di Lugansk nonché segretario del Movimento dell’area di Lugansk per la Perestrojika, realtà politica nata per contro-bilanciare il Rukh (Narodnyi Rukh Ukrajiny), partito nazionalista ucraina.

Attenzione: il giornale – russo – da un lato e l’intervistato dall’altro non garantiscono una completa imparzialità d’informazione circa la reale situazione del Donbass nei primi Novanta. Tuttavia, la considerazione proposta è interessante. 

Secondo Cheker, infatti, all’incirca la metà della popolazione del Donbass auspicherebbe una autonomia politica, sociale ed economica da Kiev, evitando così il rischio di “ucrainizzazione” dell’area. Parole importanti poiché evidenziano come, già trent’anni fa, il carattere russo della regione fosse sotto gli occhi di tutti, a Lugansk come a Kiev. 

Non si parla, dunque, di separazione o di creazione di una realtà a se stante. Ciò che emerge è sostanzialmente il desiderio di vedere riconosciuto lo status di minoranza all’interno della nuova Ucraina. 

Secondo gli ucraini di etnia russa, insomma, il bacino del Donec andrebbe considerato al pari del nostro Alto Adige: benefici a livello finanziario, di governo, di tassazione e di conservazione dell’identità tirolese-austriaca, pur restando parte della Repubblica Italiana. Il mito di “Donetsk-Krivoy Rog” tornerà quasi trent’anni dopo, durante la guerra del 2014: le auto-proclamate repubbliche di Lugansk e di Donetsk si porranno in continuità con l’esperienza dello Stato sorto nel 1918, con la sola differenza che se Krivoy Rog fu rapidamente assorbita dall’Ucraina, gli odierni separatisti sono ancora là, ma questa volta col supporto, aperto ed incondizionato, di Mosca. 

Chi è quindi ancora convinto che Donetsk e Lugansk siano recenti creazioni del Cremlino per destabilizzare l’Ucraina commette un grave errore: riassorbire le – storiche – regioni russe dell’Ucraina orientale ed acquisire la Crimea erano obiettivi di Mosca sin dalla caduta dell’Unione sovietica. Non solo: la Crimea è il naturale sbocco russo nel Mar Nero sin dalle campagne di Pietro il Grande e di Caterina che, partendo dal Mar d’Azov, strapparono agli ottomani il controllo di un bacino marittimo essenziale per la proiezione della politica estera russa nell’Asia centrale, nell’Europa orientale e nel Mediterraneo. 

Difficilmente la partita in corso potrà essere risolta con il “piano italiano”, né con ulteriori invii di armi made in Usa. Chiunque mastichi un po’ di storia della Russia ricorderà che nel 1991, a bandiera rossa ammainata, la debole Federazione nata dalle ceneri della terra dei soviet mantenne con le unghie e con i denti le basi in Siria, cercò di rinsaldare i rapporti con Uzbekistan e e Tagikistan, lasciò per un trentennio una divisione motorizzata lungo la frontiera uzbeko-tajiko-afghana per sorvegliare quell’Afghanistan parte della sua sfera d’influenza. E, soprattutto, tenne sotto controllo la Transnistria la cui posizione di terra di frontiera e i cui ingenti depositi di armi, imponevano di evitare che Moldova o Romania potessero annettere quella striscia tanto sottile quanto preziosa. 

La guerra dunque si concluderà solo in un modo: con la garanzia a Putin e a Lavrov della sovranità russa sul bacino del Donec e su tutto il Mar Nero settentrionale. Ogni eventuale, ulteriore tentativo di limitare le ambizioni russe allontanerà la pace e maledirà l’Ucraina, tutta, con un periodo perenne di instabilità. Quanto alle repubbliche di Lugansk e di Donetsk, possiamo smetterla di chiamarle filorusse. Non sono collaborazionisti: si sentono (e sono) russi.

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