L’Oceano Pacifico, negli ultimi anni, è tale solo di nome. Nei mari, ma soprattutto nei cieli, della sua parte più occidentale, a ridosso del continente asiatico dove prende nomi diversi, si susseguono ormai a cadenza giornaliera missioni di pattugliamento, ricognizione ed esercitazione di ogni sorta di velivoli appartenenti ai due giocatori che si stanno contendendo quell’importante scacchiere da dove passano traffici commerciali del valore di svariate decine di miliardi di dollari l’anno: gli Stati Uniti, coi loro alleati, e la Cina.
Pechino e Washington si stanno affrontando sempre più esplicitamente: da un lato il Politburo sta lentamente ma costantemente alzando i toni delle proprie rivendicazioni su Taiwan, sul Mar Cinese Meridionale, sul Kashmir e sugli stretti che mettono in comunicazione l’Estremo Oriente con l’Africa e l’Europa passando per l’Oceano Indiano; dall’altro lato la Casa Bianca sta rimodulando le proprie Forze Armate in una delicata transizione dal contrasto a gruppi di insorti (guerra asimmetrica) che ha costellato le ultime due decadi, ad uno scenario di tipo convenzionale, un po’ colpevolmente abbandonato a dire il vero, per affrontare le minacce date da agenti statuali come la Russia e la Cina.
Gli effetti di questo contrasto sono evidenti proprio nel Pacifico Occidentale, in particolare nel settore che va dalle isole delle Marianne sino al continente e dalla Kamchatka sino all’Indonesia. È infatti qui che si concentra l’attività delle Forze Armate dei due Paesi in questione.
Proprio poche ore fa, ad esempio, quattro bombardieri strategici convenzionali B-1B sono tornati alla base Andersen, sull’isola di Guam, per quello che sembra a tutti gli effetti un altro dispiegamento operativo.
Guam è una base fondamentale per gli interessi americani nel Pacifico, e nonostante lo scorso 16 aprile cinque bombardieri B-52H dell’Usaf siano decollati dalla base Andersen per ritornare definitivamente negli Stati Uniti – esattamente tre giorni dopo la dimostrazione di forza data dal “elephant walk”, il sentiero degli elefanti, visto proprio sulla pista della base del Pacifico – dopo 16 anni di presenza ininterrotta, Washington non ha certo rinunciato a dare periodiche dimostrazioni di forza come quella di queste ore.
I B-1B sono arrivati sull’isola direttamente dalla base Ellesworth (Sud Dakota), e solo questo dimostra la volontà statunitense di continuare con il proprio impegno in quel settore del Pacifico. Il lungo volo di trasferimento, effettuato senza scalo, è di per sé una dimostrazione di forza, anche al netto della breve esercitazione “di passaggio” effettuata dai bombardieri insieme a caccia delle Jsdaf durante il passaggio a ridosso dell’arcipelago nipponico.
Il trasferimento, temporaneo, dei B-1B a Guam non è affatto l’unico movimento di velivoli statunitensi nel teatro del Pacifico Occidentale. Velivoli spia e da ricognizione sono quasi perennemente attivi un po’ ovunque: attraverso fonti open source di intelligence sappiamo che, ad esempio, nelle stesse ore in cui sono arrivati i bombardieri, un E-8C Joint Stars, un aereo per la sorveglianza elettronica e posto comando volante, è atterrato alla base americana in Giappone di Kadena, a Okinawa, dopo una lunga missione sul Mar Cinese Meridionale.
Un altro velivolo da pattugliamento, questa volta dell’U.S. Navy, un P-3C, sempre decollato da Kadena ha effettuato una missione nei cieli della Corea del Sud. Il 9 settembre, invece, è stato osservato un RC-135S Cobra Ball, un velivolo Masint (Measurement & Signature Intelligence) in grado di tracciare i missili balistici, che ha sorvolato per ore le acque del Mar Giallo all’interno della Fir (Flight Information Region) di Shanghai dopo essere decollato sempre dalla base nipponica.
Il giorno prima è un RC-135W Rivet Joint, piattaforma Sigint (Signal Intelligence) volante dell’Usaf, che prende la via del Mar Cinese Meridionale partendo dal Giappone, e potremmo continuare a ritroso nel tempo a lungo ancora e con diversi altri velivoli.
Da parte cinese non si è restati certo a guardare. Pechino sembra più concentrarsi, però, sui propri punti caldi, ovvero Taiwan e gli arcipelaghi contesi delle Spratly o della Paracelso. A margine del misterioso incidente che avrebbe coinvolto un caccia cinese lo scorso 4 settembre, l’attività della Plaaf (People’s Liberation Army Air Force) non accenna a diminuire nei cieli della “provincia ribelle”: nell’arco di 24 ore la Adiz di Taipei è stata violata da velivoli cinesi in due occasioni distinte quando il 9 caccia Su-30 e J-10 sono stati inviati ad abbandonare lo spazio aereo ed il 10 quando ancora Su-30 e aerei da trasporto Y-8 hanno ripetuto l’intrusione.
Senza dimenticare il dispiegamento di almeno un bombardiere tipo H-6J (lanciamissili da crociera) sull’isola Woody nel settore settentrionale del Mar Cinese Meridionale avvenuto lo scorso 12 agosto, che ha destato le preoccupazioni non solo di Washington, ma anche dei Paesi che si affacciano su quello specchio d’acqua conteso.
Anche se non si può parlare propriamente di nuova Guerra Fredda, per via principalmente della diversità dell’arsenale nucleare dei due protagonisti odierni, i meccanismi diplomatici e militari che stanno caratterizzando i rapporti tra Cina e Stati Uniti ricordano molto quel periodo storico. Sullo sfondo, ma nemmeno troppo, c’è ancora la Russia, che preoccupa i Paesi dell’Europa Orientale e che non ha decisamente perso attenzione da parte della politica estera della Casa Bianca, che continua a ribadire il suo impegno nel Vecchio Continente inviando bombardieri nucleari (oltre ai normali voli di aerei spia) per “mostrare la bandiera”.