Gli Stati Uniti non possono “prendere alla leggera” l’ipotesi che la Russia lanci un attacco con armi nucleari tattiche. Sono queste le parole con cui il direttore della Cia, William Burns, ha parlato di una possibile escalation nucleare in Ucraina. Scenario che secondo l’intelligence americana sarebbe direttamente proporzionale al senso di disperazione di Vladimir Putin di fronte alla piega del conflitto ucraino. La Cina, sottolinea Burns, non ha “prove concrete” su un cambiamento di strategia russa che possa portare a un probabile impiego di questi ordigni. Ma la preoccupazione c’è, ed è il motivo per cui i servizi americani studiano continuamente ogni mossa che possa far capire se il Cremlino stia andando verso l’uso di armi nucleari tattiche.
Lo racconta anche una approfondita inchiesta del quotidiano Domani in cui si spiega che la Cia e l’MI6 britannico hanno “realizzato recentemente report aggiornati sugli uomini chiave della cosiddetta ‘triade nucleare’, cioè i sistemi di lancio delle testate da terra, dall’aria e dal mare, per valutare i profili soggettivi dei generali e ipotizzare – in caso di ordine dal Cremlino – l’esistenza o meno di margini per un’insubordinazione di chi deve spingere l’ultimo bottone”. L’occhio è puntato non solo su Putin, ma anche sul capo di Stato maggiore Valerij Gerasimov, sul generale Sergej Karakayev, comandante delle forze missilistiche strategiche, sul tenente generale Sergey Kobylash, capo dell’Aviazione a lungo raggio, e sull’ammiraglio Nikolai Anatolyevich Yevmenov, comandante in capo della Marina militare russa. Dallo studio del profilo umano, professionale e psicologico di questi soggetti, gli analisti stanno cercando di capire il livello di affidabilità dei vertici militari in caso di ordine d’attacco.
La questione è complessa, perché il sistema russo, in questo non molto dissimile da quello sovietico, è verticistico nella sua forma pubblica, ma eterogeno a livello interno. Molti sottolineano come sia proprio questa diversità di vedute e il personalismo dei comandanti ad avere impantanato le forze russe in Ucraina. Qualcuno sospetta che il fatto che i generali siano costretti ad andare in prima linea, più che un’immagine del desiderio di esser insieme alle truppe vada letto come un problema di sistema per cui diventa necessaria la presenza fisica. Non solo le comunicazioni sono sempre più difficili, ma gli osservatori sospettano che molti comandanti stiano sostanzialmente combattendo guerre personali che bloccano la catena di comando. Un meccanismo che rischia di inceppare le operazioni russe in Ucraina in modo irreparabile ma su cui i servizi occidentali sembrano volere investire anche in chiave di disobbedienza interna. Di qui la necessità di capire chi si ha di fronte, se sono cosiddetti “falchi” o “colombe”, se la loro fedeltà al Cremlino è totale o di semplice facciata, se esistono dei precedenti personali da cui poter trarre determinate conclusioni sul loro modo di condurre la guerra. Analisi che erano state fatte anche quando si parlava di un possibile golpe in caso di disfatta militare in Ucraina. E che tornano ora che lo scenario bellico si è fatto decisamente più fluido e in cui lo spettro nucleare non appare affatto definitivamente allontanato.
Sul punto, è interessante che anche dalla Cina siano arrivati segnali di avvertimento su questo pericolo. L’Occidente, impegnato attraverso il rifornimento di armi alla Nato e con le sanzioni a Mosca, è chiaro che possa avere interesse ad alzare il livello di attenzione sul Cremlino e sull’immagine di Putin. Ma Pechino, che in questi ormai 50 giorni di guerra ha sempre evitato prese di posizioni rigide sulla Russia, inizia a lanciare dei segnali. Sul China Daily si legge che la guerra in Ucraina “è un rischio per la sicurezza nucleare” perché l’attuale deterrenza “in situazioni instabili può spingere le potenze rivali a lanciare un attacco nucleare basato su informazioni fuorvianti. E in modo inquietante, negli ultimi anni gli Stati Uniti e la Russia hanno accelerato il loro sviluppo nucleare”. Il quotidiano accusa il presidente Usa, Joe Biden, di avere una posizione sulla non proliferazione nucleare “oscillante e ambigua” e chiede che “tutte le parti facciano sforzi concertati, limitino le rispettive azioni militari e mostrino coraggio per tenere colloqui sul controllo degli armamenti e sulla non proliferazione nucleare”. Il problema dunque c’è. Al punto che anche la Repubblica popolare cinese – in modo meno diretto rispetto agli Stati Uniti – avverte su quello che è a tutti gli effetti un pericolo concreto, per quanto non imminente.
Preoccupa in particolare lo scorrere del tempo, e questo per tre ragioni. La prima è che la Russia sta perdendo una quantità di uomini e mezzi decisamente superiore rispetto alle previsioni del Cremlino. La seconda ragione è legata al fatto che Putin si è prefissato un giorno, il 9 maggio, come possibile fine delle operazioni. E questa data, che per la Federazione russa è il giorno della Vittoria sulla Germania nazista, è una spada di Damocle che adesso pende su Mosca. Il leader russo, almeno in base alle ipotesi più accreditate dagli osservatori, vorrebbe celebrare un’altra vittoria, quella che per il capo dello Stato è una operazione per “denazificare” l’Ucraina. Ma vincere questa guerra nell’arco di tre settimane appare decisamente difficile alla luce dell’evoluzione sul campo. Proprio per questo, c’è chi teme che l’accelerazione possa essere in qualche modo parallela a una minaccia dell’impiego di armi nucleari. Infine, terza ragione, è la dottrina per l’utilizzo di queste armi.
Nel giugno del 2020, infatti, Mosca ha aggiornato le sue “linee-guida” sull’atomica elencando una serie di condizioni per il suo utilizzo:
- “La ricezione di informazioni affidabili sul lancio di missili balistici che attaccano i territori della Federazione Russa e (o) i suoi alleati;
- L’uso da parte dell’avversario di armi nucleari o altri tipi di armi di distruzione di massa nei territori della Federazione Russa e (o) dei suoi alleati;
- L’impatto del nemico su strutture statali o militari critiche della Federazione Russa, il cui fallimento comporterà l’interruzione delle azioni di ritorsione delle forze nucleari;
- Aggressione alla Federazione Russa con l’uso di armi convenzionali, quando l’esistenza stessa dello Stato è minacciata”.
Ma il problema riguarda anche la lista di minacce che, come scritto nel documento firmato da Putin, “a seconda dei mutamenti della situazione politico-militare e strategica, possono trasformarsi in minacce militari alla Federazione Russa (minacce di aggressione) e per la cui neutralizzazione si attua la deterrenza nucleare”. Ipotesi che sembrano lasciare ampio margine al possibile impiego di queste armi. Se alla vacuità di certi pericolo espressi dalla dottrina strategica russa, si aggiunge l’ambiguità data dal potenziale delle armi nucleari cosiddette “tattiche”, si comprende perché la situazione appare fluida e in grado di preoccupare l’intelligence mondiale. Mentre sulle armi strategiche esiste una forma di controllo molto più chiara e un utilizzo codificato anche dalle “regole del gioco” che in questi anni si sono date le grandi potenze, l’utilizzo e il pericolo di queste armi tattiche è ancora abbastanza oscuro.
È chiaro che in parte giochi la propaganda. La Russia ha tutto l’interesse a mostrarsi capace di arrivare alla soluzione nucleare e, d’altro canto, gli Stati Uniti e le intelligence occidentali hanno l’obiettivo di mostrare il pericolo dato dalla permanenza di Putin al potere. In questo scontro di immagine, il nucleare rimane dunque uno spettro che può essere agitato da tutte le parti in causa a seconda del messaggio che si vuole lanciare. Ma il fatto che rientri in una narrativa, non significa che questo scenario sia derubricabile a fantascienza. L’impressione è che in una guerra logorante, estremamente ampia e in cui si snoda il futuro dell’Europa e degli equilibri internazionali, tutte le ipotesi debbano essere messe sul tavolo.