Cinque persone hanno perso la vita, nella provincia colombiana di Cauca, in seguito ad un attacco sferrato nei confronti di alcuni leader indigeni. Tra le vittime c’è Cristina Bautista, a capo della riserva di Tacueyò, altre sei persone, invece, sono rimaste ferite. L’esecutivo colombiano ha accusato del massacro le fazioni dissidenti delle Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane (Farc) e la strage sarebbe stata compiuta, secondo quanto è emerso da una prima indagine, come vendetta per l’arresto di tre guerriglieri da parte di guardie di sicurezza indigene. La violenza, che ha insanguinato la Colombia per decenni e che avrebbe dovuto terminare in seguito all’accordo di pace raggiunto con i ribelli marxisti delle Farc nel 2016, sembra non voler abbandonare il Paese.
Una crisi pericolosa
Il presidente colombiano Ivan Duque ha deciso di inviare 2.500 soldati, in seguito al massacro, per cercare di ristabilire le condizioni di sicurezza nella zona. La situazione, però, è più complessa di quanto possa sembrare: la smobilitazione di una parte delle Farc, infatti, ha portato a duri scontri tra le fazioni dissidenti, gruppi paramilitari di destra e gang criminali che cercano di assumere il controllo del territorio e del redditizio traffico di cocaina che attraversa la zona. A rimetterci sono state le comunità indigene: dozzine di leader locali ed attivisti sociali sono stati uccisi, infatti, dal 2016 ad oggi. I vertici della National Indigenous Organization of Colombia (Onic) hanno riferito che 123 indigeni hanno perso la vita dall’inizio del mandato del presidente Duque nell’agosto del 2018 e che queste popolazioni sono perseguitate, massacrate ed uccise. L’organizzazione ha indetto uno sciopero, nella giornata del 21 novembre, per manifestare contro le politiche dell’esecutivo, giudicate insufficienti ad arginare l’ondata di violenze che li ha travolti.
Le ex Farc
Le Forze Armate Rivouzionarie Colombiane, ormai costituitesi come partito politico dalla firma degli accordi di pace, hanno condannato la decisione di alcuni dei suoi membri di tornare alla lotta armata ed hanno recentemente espulso Ivan Marquez e Jesus Santrich, due ex leader ribelli, per aver deciso di imbracciare nuovamente le armi. Secondo quanto riferito dal movimento oltre il 95 per cento degli ex combattenti continuerebbe ad aderire al processo di pace.
Durante le trattative con Bogotà, infatti, sessanta fronti della guerriglia avevano dissentito circa la prospettiva di una pacificazione ed erano stati espulsi dal gruppo. “Ivan Mordisco” e “Gentil Duarte” sono emersi come figure di spicco di una parte dei ribelli ancora attivi. Le fazioni dissidenti sono riuscite a conservare il controllo su una parte dei territori originalmente occupati dal gruppo e costituiscono una minaccia per la sicurezza nella Colombia orientale e sud-orientale. Queste fazioni sembrano aver abbandonato le ambizioni politiche ed operano piuttosto come un’organizzazione criminale. Dopo l’inizio del processo di pace, invece, altri ribelli si sono dissociati dall’intesa con il governo ed hanno iniziato a riunirsi in maniera indipendente o a confluire nelle strutture già attive. L’iniziativa di Marquez e Santrich, che aspirano a riorganizzare le Farc su scala nazionale e con obiettivi politici, è destinata a scontrarsi con un contesto già molto frazionato. La pacificazione della Colombia, in definitiva, rischia di naufragare qualora le autorità centrali non assumano con più decisione il controllo della situazione.