È una delle forze militari più temute di sempre. Ed è, ovviamente, blindatissima.Stiamo parlando della Legione Straniera.
La sua storia inizia in modo singolare: Luigi Filippo di Francia – siamo nel 1831 – arruola tutti gli stranieri che lo desiderano e li manda a combattere in Algeria. La neonata Legione si comporta in maniera esemplare, tanto da guadagnarsi le spalline rosse e verdi dei Granatieri e il tricolore francese. Non hanno nulla da perdere i legionari. Possono solo sperare contro ogni speranza. Combattono in Crimea e in Messico, più precisamente a Camerone.
Qui i legionari guidati dal capitano Danjou vengono attaccati su ogni lato. È una strage. Tremila messicani contro 62 legionari decisi a non arrendersi, Gian Carlo Fusco racconta così quella battaglia: “Cadde, con un supremo grido di incitamento, il prode Danjou, levando al firmamento la mano artificiale applicatagli al posto di quella persa quattro anni prima in combattimento. Si abbatté sul terreno sassoso il vicecomandante Vilain, schiacciato da uno sciamo di piombo. Il terzo e ultimo ufficiale della compagnia, l’imberbe sottotenente Maudet, rotolò in un fosso, gravemente ferito. Quando la fucileria tacque, i messicani, impressionati dall’epico comportamento del nemico, presentarono le armi ai morti e ai quattro sopravvissuti”.
Ogni anno, il 30 aprile, i legionari sfilano davanti alla “reliquia” del capitano Danjou. Un’emozione senza fine, come racconta un ex legionario siciliano: “Il richiamo di Camerone è come un istinto naturale. Gli arriva dritto al cuore, perché è parte del suo stesso dolore. È un grosso promemoria, per ricordare al legionario che avrà sempre la sabbia negli occhi, il campo di battaglia sarà sempre svantaggioso, che la disparità di forze è troppo alta, la causa non basta a giustificare la sua morte e le armi di cui dispone sono sempre quelle sbagliate. E, soprattutto, che nessuno si preoccupa che lui vinca o perda, che viva o muoia. Camerone dà al legionario la forza di convivere con la sua disperazione. Gli ricorda che non può vincere, ma gli fa sentire che esiste una dignità anche nell’essere sconfitto”.
Passano due guerre mondiali e la Legione è sempre in prima linea e sempre la stessa: la meta di chi cerca l’avventura, di chi vuole mettere alla prova la propria virilità, di chi è spinto da motivi ideologici oppure di chi scappa da una vita di stenti o dalla polizia. Dalla Legione sono passati tutti: principi (Pietro di Serbia, per esempio), ministri (Giuseppe Bottai) e scrittori (Ernst Jünger). La Legione ha accolto tutti e ha trattato tutti egualmente male. Già, perché una volta varcate le mura di Aubagne, iniziano subito i test fisici, di intelligenza e psicologici di base. L’obiettivo è quello di eliminare le reclute più deboli, soprattutto mentalmente. Perché il fisico nella Legione conta fino a un certo punto. Quello che conta è la forza di volontà.
Ordine e pulizia. Queste sono le parole base dell’addestramento dei legionari, come ricorda un volontario inglese di nome Tony Sloane: “Tutto doveva essere immacolato. Ogni mattina entro le sei ci lavavamo, ci sbarbavamo, disfacevamo i letti e piegavamo le coperte, lavavamo le camerate e i bagni”. Poi di corsa fuori. Tutto viene fatto sotto pressione. Gli istruttori ti urlano in faccia e tu non sai come comportarti. Ma è proprio questa la sfida: imparare ad agire in ogni condizione, anche quelle più stressante, come ricorda un irlandese: “Ci veniva chiesto di fare l’impossibile – e il gruppo degli istruttori voleva vedere come reagivamo alla pressione, allo sfinimento, al caos, al senso di inutilità e forse anche alla disperazione”. Si marcia tanto nella legione. E si canta a squarciagola, come spiega una recluta inglese dei primi anni ’50, Colin John: “La Legione ha un gran numero di canti per la marcia. Sono quasi tutti canti di origine tedesca, cui sono state adattate le parole francesi, e alcuni sono davvero belli. I comandanti della Legione attribuiscono molta importanza al fatto che i distaccamenti in marcia cantino all’unisono questi inni, con melodioso e ritmico vigore. Ritengo che il cantare in coro sia il grande aiuto nell’inculcare l’esprit de corps in uomini che non hanno alcuna via per comunicare reciprocamente tutti insieme”. Si canta e si marcia. Cinque chilometri all’ora.
L’addestramento base dura quattro mesi. Poi ci si specializza. Ci si esercita fino alla sfinimento, spesso in condizioni estreme, come ci ha spiegato un ex legionario, e senza particolari protezioni. Ed è così che si diventa legionari. A suon di marce, di botte e di canti a squarciagola. Il legionario andrà ovunque richiesto in battaglia e non oserà mai dire bah: “Lui che è diventato figlio della Francia, non per il sangue ricevuto, ma per il sangue versato”.