“Non permetterò mai che l’Iran ottenga la capacità nucleare per portare avanti il suo obiettivo di eliminare Israele”. Il commento di Benjamin Netanyahu dopo l’incidente nella centrale nucleare di Natanz, in Iran, sembra essere la conferma di quanto sospettato in questi giorni: ci sarebbe la mano del Mossad dietro l’esplosione che ha colpito il sito iraniano subito dopo l’avvio delle nuove centrifughe. Per Teheran il sospetto è diventato certezza praticamente subito. I funzionari iraniani hanno parlato immediatamente di un attacco terroristico e in molti hanno puntato il dito contro Israele, colpevole, a detta della Repubblica islamica, di voler sabotare non solo il programma atomico del Paese ma anche il negoziato che va avanti in questi giorni con Washington per il rientro Usa nell’accordo sul nucleare.
L’esplosione di Natanz
Da Israele non potranno mai arrivare conferme esplicite. Ma quanto sta avvenendo in queste ore nello Stato ebraico dimostra che è molto plausibile che dietro l’esplosione di Natanz vi siano i servizi segreti israeliani. Innanzitutto perché nessuno nega apertamente il coinvolgimento di Israele. Anche questa è una strategia: non confermare né smentire equivale a lasciare un alone di mistero che aiuta a percepire il Paese come una potenza in grado di colpire ovunque. Ma rispetto agli anni precedenti, quando tutto avveniva nel più rigoroso silenzio ed erano soprattutto i giornalisti a fornire il quadro della situazione, adesso a intervenire è direttamente il governo. Netanyahu, con quelle parole, ha certificato l’idea di un sabotaggio israeliano. Il ministro della Difesa, Benny Gantz, ha addirittura chiesto di aprire un’indagine sulle indiscrezioni apparse sui media per quanto riguarda il presunto attacco: “Non possiamo operare quando tutto il mondo sta farfugliando”, ha detto Ganz all’agenzia Efe, bollando come inaccettabili “queste strizzate d’occhio e queste storie di ‘fonti occidentali'”. L’idea quindi non è quella di negare il coinvolgimento di Israele e del Mossad, ma denunciare la fuga di notizie. Cosa che equivale a un’ammissione di colpevolezza. E anche l’ex capo dell’intelligence ha parlato apertamente di un’ipotesi di sabotaggio. Ed è difficile che il precedente vertice dei servizi parli senza avere conferme di quanto avvenuto a Natanz.
La portata dei danni non è ancora particolarmente chiara. Fonti dell’intelligence citate dal New York Times parlano di un guasto che avrebbe addirittura ritardato di nove mesi il programma nucleare. Da Teheran minimizzano, ma giurano vendetta. E il capo del programma nucleare civile iraniano, Ali Akbar Salehi, ha detto che l’arricchimento prosegue pur con tutti i danni subiti dalla centrale. Ma è chiaro che il colpo inferto all’Iran, almeno sotto il profilo dell’immagine, è molto pesante. A essere colpito non è infatti un sito qualsiasi del programma atomico di Teheran, ma il suo cuore pulsante. Un cuore oscuro, al centro dell’Iran, dove da molto tempo sono puntati gli occhi di Israele e Stati Uniti (che questa volta negano qualsiasi coinvolgimento nel sabotaggio). E lo stesso Fereydoon Abbasi Davani, ex capo dell’Organizzazione iraniana per l’energia atomica ha confermato alla televisione di Stato che “da un punto di vista tecnico, il piano del nemico era piuttosto bello”, probabilmente studiato da molti anni. Ed è possibile che il cyber-attacco sia stato opera della ormai nota Unit 8200 israeliana.
Natanz, il cuore atomico dell’Iran
La storia di Natanz inizia nel 2002 e da quel momento Israele ha sempre visto con molto attenzione e paura a quanto avveniva nelle viscere della terra. Il sito, un’area di circa 100mila chilometri quadrati, si trova una decina di metri sotto terra, con alcune parti che sono ancora più in profondità. Nel 2004 il tetto del sito è stato coperto da un nuovo strato di cemento armato e da 22 metri di terra. Un enorme bunker atomico che l’Iran ha costruito per avanzare nel suo programma nucleare e proteggersi da qualsiasi attacco statunitense o israeliano.
Già nel 2009, un primo rapporto dell’Aiea stimava più di 3900 centrifughe attive. Una cifra che mise in allarme sia Israele che gli Stati Uniti, a tal punto da lanciare un attacco informatico devastante con il famigerato virus Stuxnet. Il colpo cyber fu letale: centina di centrifughe divennero inutilizzabili e l’Iran fu costretto a dotarsi di nuovi elementi che tardarono di anni lo sviluppo del programma. L’accordo del 2015 impegnava l’Iran a bloccare l’arricchimento nucleare nel sito. Ma l’uscita degli Stati Uniti ha cambiato le carte in tavola. I sospetti di Israele non si sono mai sopiti, e il timore di un utilizzo del sito nucleare ha fatto scattare l’allarme sia a Washington che nei comandi israeliani.
Timori che sono stati seguiti da un misterioso incidente: il 2 luglio 2020 una strana esplosione ha colpito l’edificio distruggendone una parte esterna. Le autorità iraniane hanno provato a minimizzare, ma il susseguirsi di una serie di strani incendi ed esplosioni in siti legati al programma missilistico e nucleare iraniano fa propendere per un’inquietante catena di sabotaggi. All’inizio per il governo e per i Pasdaran è sembrato difficile ammettere di essere colpiti da forza esterne o tantomeno da nemici interni. Equivaleva ad ammettere un problema. Ma il numero degli episodi unito alla concomitanza con le trattative segrete per il nucleare iraniano ha lasciato pochi spazi ai dubbi. Come del resto avvenuto per questo più recente raid contro la centrale.
Dal mare al nucleare
Quella tra Iran e Israele appare come una vera e propria escalation senza esclusione di colpi. Dall’estate del 2020, con incendi, esplosioni e omicidi la tensione tra i due Paesi è arrivata quasi a superare i livelli di guardia. E l’ultimo attacco a Natanz (non a caso in concomitanza con l’arrivo del capo del Pentagono a Gerusalemme) segna un nuovo aumento del livello della sfida tra i due Stati.
Un attacco che non è un episodio isolato. Nelle ultime settimane l’escalation di tensione tra Iran e Israele si è avuta soprattutto in mare, con una serie di incidenti che hanno già da tempo avvertito della pericolosità del duello esploso in questi mesi. Israele ha colpiti ripetutamente i mercantili iraniani diretti in Siria nel corso i questi ultimi anni. E nell’ultimo mese, proprio pochi giorni prima del colpo a Natanz, i commando israeliani hanno colpito – probabilmente con una mina magnetica – la Mv Saviz, cargo usato dai Pasdaran come nave madre per le operazioni in Yemen e nel Mar Rosso. Un attacco che assomiglia molto alle operazioni di sabotaggio messe in atto dallo Shayetet 13, e che arriva dopo due navi israeliani colpite da strane esplosioni mentre navigavano nel Mar Arabico e nel Golfo Persico. Colpi chirurgici ma precisi che rappresentano ogni volta un segnale: avvertimenti pericolose escalation che rischiano di incendiare i mari intorno alla Penisola arabica e confermano il rischio di una guerra su larga scala che coinvolga anche il fronte marittimo.
L’escalation colpisce i negoziati
La crescente tensione tra Iran e Israele arriva nel momento in cui gli Stati Uniti stanno cercando faticosamente di rientrare nell’accordo sul programma nucleare dopo l’uscita di Donald Trump. I negoziati non sono affatto semplici: l’Iran appare indebolito dalle sanzioni e dalla pandemia di coronavirus, ma le mosse americane degli ultimi anni hanno costruito un vero e proprio muro tra Teheran e Washington. L’uscita di Trump ha indubbiamente fatto intendere la velocità con cui Usa possono tirarsi fuori da un trattato. E questo implica molta meno fiducia da parte dei rivali. Dall’altro lato gli Stati Uniti non possono cedere di fronte alle richieste dell’Iran, non solo perché Teheran ha mostrato di avere una capacità militare e tecnologica particolarmente importante, ma anche perché Israele non accetterà mai un accordo senza garanzie assolute sulla fine di qualsiasi programma atomico in Iran. E l’alleanza con li Stato ebraico per l’America conta parecchio.
Certamente gli attacchi israeliani non facilitano i negoziati che si stanno tenendo a Vienna e in altre sedi. Ma Teheran non sembra intenzionata, per il momento, a rompere l’accordo. Con la firma del partenariato strategico con la Cina, a Repubblica islamica ha ottenuto ossigeno per le sue casse ma anche la richiesta di evitare ulteriori escalation. E, come spiegato all’Adnkronos dal professor Meir Litvak dell’Università di Tel Aviv, l’impressione è che l’Iran “stia cercando di accumulare merce di scambio per i negoziati di Vienna in modo che la sua maggiore ‘concessione’ sia tornare al Jcpoa come era prima, senza fare altre concessioni ai 5+1“. Tutti si aspettano una vendetta: ma appare difficile che possa essere un attacco tale da indurre gli Stati Uniti a ritirarsi dalle trattative. E il fatto che gli Stati Uniti abbiano negato ogni coinvolgimento sembra essere un ulteriore segnale dell’irritazione della Casa Bianca per quanto sta avvenendo in Medio Oriente ma anche dell’arma negoziale che ha in mano Teheran: se non supera le “linee rosse”, la Repubblica islamica può concludere l’accordo e mostrarsi vittima dell’escalation.