La guerra in Ucraina prima, e il conflitto tra Israele e Hamas poi, hanno catalizzato l’attenzione dei media che hanno tralasciato di guardare a quelle zone di instabilità che, a macchia di leopardo, costellano il globo. Dalle nostre colonne vi abbiamo già parlato di quanto sta accadendo nel continente africano, rivolgendo particolare attenzione al Sahel e al Nord Africa per evidenti motivazioni legate all’interesse nazionale, ma proprio in forza di questo non bisogna dimenticare che il nostro Paese, come l’Europa, è legato alle sorti di una regione molto lontana da noi, ma da cui dipendiamo a livello economico e tecnologico: l’Estremo Oriente.
Anche in quella zona di globo esistono focolai di instabilità, che rischiano di diffondersi e anche di diventare veri e propri conflitti che, per gli attori coinvolti, potrebbero facilmente degenerare in una guerra mondiale. L’Indo-Pacifico è al centro della politica statunitense volta al contenimento dell’espansionismo economico e politico cinese, ma un altro attore più “europeo” non ha mai cessato la sua attività in quel settore: la Russia.
La scorsa settimana vi avevamo raccontato della piccola squadra navale della Flotta del Pacifico giunta in Indonesia per rafforzare i legami bilaterali; ora i due cacciatorpediniere russi sono arrivati in Myanmar per un altro scalo di 4 giorni in cui si terrà la prima esercitazione navale congiunta delle flotte russa e birmana oltre a visite reciproche alle navi da parte di personale militare dei due Paesi, insieme a eventi sportivi e culturali.
Trappola Myanmar
Il soft power in salsa russa passa quasi esclusivamente per la promozione del suo strumento militare che permette a Mosca di avere un discreto successo sul mercato globale degli armamenti. Proprio il Myanmar è da tempo sede di instabilità. Nuovi pesanti scontri a fuoco sono iniziati il 26 ottobre tra le Forze Armate del Myanmar, varie organizzazioni armate etniche e le Forze di Difesa Popolare colpendo in modo significativo le regioni nord-orientali e sud-orientali del Paese.
Secondo quanto riferito dall’Onu, circa 25700 persone nello Shan settentrionale, Bago Est e Kayin sono state sfollate generando una nuova crisi umanitaria. Una nuova ondata di profughi che sta cercando rifugio nei Paesi limitrofi, tra cui anche la Cina, e che le Nazioni Unite faticano ad assistere. Le vie di transito principali che collegano lo Shan settentrionale alla Cina sono attualmente chiuse dai checkpoint delle forze armate e da quelli delle milizie etniche e almeno un ponte è stato distrutto. Inoltre nelle regioni afflitte dagli scontri armati ci sono state gravi interruzioni dei servizi di dati mobili e telecomunicazioni.
Wang Xiaohong, membro del Gabinetto cinese, ha incontrato il ministro degli Interni della giunta al potere in Myanmar, il tenente generale Yar Pyae, per discutere “di pace e tranquillità nelle zone di confine dei due Paesi” e di cooperazione in materia di applicazione della legge e sicurezza. Nella zone dove infuriano i combattimenti è infatti previsto un collegamento ferroviario da un miliardo di dollari come parte del progetto infrastrutturale globale Belt and Road Initiative di Pechino.
La Cina è uno dei principali alleati e fornitori di armi della giunta golpista, e ha rifiutato di etichettare la sua presa del potere nel 2021 come un colpo di Stato. L’inviato cinese in Myanmar si è incontrato regolarmente con la leadership locale negli ultimi mesi, e durante la pandemia, Pechino ha fornito vaccini e aiuti al territorio controllato dagli insorti. Ma la Cina sostiene e arma anche diversi gruppi lungo il confine con il Myanmar, sede di comunità etniche cinesi, in un cinico calcolo volto ad evitare che l’instabilità si propaghi al suo interno.
Le acque bollenti del Mar Cinese Meridionale
Un altro importante focolaio di instabilità asiatica è rappresentato dal Mar Cinese Meridionale, come sappiamo. Le ultime notizie che ci giungono riferiscono di incontri ravvicinati ad alta tensione tra la guardia costiera filippina e quella cinese. Nella settimana del 23 ottobre c’è stato uno scontro in mare tra un’unità di Pechino e una di Manila nei pressi di Second Thomas Shoal nelle Isole Spratly – un gruppo di isole in gran parte disabitate in quello specchio d’acqua strategicamente importante e sede di rivendicazioni territoriali sovrapposte da parte di Filippine, Cina, Vietnam, Malesia e Taiwan. Curiosamente, ma nemmeno troppo, qualche giorno prima, intorno al 18 ottobre, la marina militare filippina aveva tenuto un’esercitazione navale congiunta con quella statunitense sempre in quelle acque contese: le manovre denominate “Sama Sama” si tengono annualmente sin dal 2017 e quest’anno hanno visto partecipare anche unità da guerra di Francia, Regno Unito e Canada.
L’attività coercitiva e intimidatoria cinese nella regione è andata lentamente ma progressivamente aumentando, dimostrando la validità della strategia del “affettare il salame” – ovvero creare piccoli incidenti senza che ci sia il casus belli in modo da mettere la comunità internazionale davanti al fatto compiuto nel lungo periodo – e possiamo osservarla anche nella seconda grossa area di tensione dell’intorno cinese: Taiwan.
La pressione su Taiwan
In tutto il mese di ottobre, sono stati 358 gli aerei militari che hanno invaso la Adiz (Air Defence Identification Zone) dell’isola, di cui 142 hanno attraversato la “linea mediana” che separa la Cina da Taiwan e corre a metà dell’omonimo Stretto.
Il 26 ottobre, inoltre, una squadra navale della PLA Navy, guidata dalla portaerei Shandong, ha attraversato lo Stretto di Bashi per dirigersi verso l’Oceano Pacifico Occidentale e in quello stesso giorno un totale di 35 aerei e 15 navi militari cinesi sono stati rilevati intorno a Taiwan nell’arco di 24 ore, con 23 aerei da guerra che hanno attraversato la linea mediana.
Se ci fossimo svegliati oggi dopo cinque lunghi anni di sonno e avessimo visto questi dati raffrontandoli a quelli precedenti, penseremmo di trovarci davanti a un conflitto imminente o a una grave crisi internazionale. Eppure, proprio secondo la strategia cinese già citata, la tensione è ancora sotto controllo sebbene sia evidente che queste azioni vogliano proprio far passare questo messaggio in modo da cogliere alla sprovvista Taipei (e i suoi alleati) quando il Dragone deciderà di riprendersi l’isola “ribelle” manu militari. Il tentativo infatti è quello di assuefare le difese taiwanesi a queste azioni, di far passare queste continue violazioni dell’Adiz come “routine”, e in un momento in cui gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare due crisi belliche contemporaneamente – Ucraina e Israele – è ragionevole pensare che la possibilità di un colpo di mano cinese sia aumentata, anche al netto della recente apertura di Pechino con Washington per quanto riguarda il delicatissimo dossier degli armamenti atomici.