A ciascuno il suo, diceva Sciascia. Maggio è il mese delle rose, novembre il mese delle olive… aprile deve essere quello delle armi chimiche. È un’antica tradizione: la primavera è il periodo migliore per attaccare i dittatori, soprattutto quelli che potrebbero avere nel cassetto armi di distruzione di massa.

È stato così per Saddam nel 2003, per Gheddafi nel 2011; come potrebbe sottrarsi il dottor Assad? Nell’aprile del 2013, fu Obama a far la voce grossa; nello stesso mese del 2017 ci pensò Trump e i missili stavolta arrivarono per davvero. Qualche decina di Tomahawk caddero (male) sulla base aerea siriana di Al Sharyat, facendo pochi danni ma tanto rumore politico.

In quell’occasione si parlò di grave azzardo Usa, ma voci più acute fecero presente che in realtà l’attacco di Trump serviva al Presidente per smarcarsi dal Russiagate, spina pericolosa del proprio fronte interno. Con tutta evidenza, alzare i toni in Siria senza produrre effetti reali, serviva a prendere apparenti distanze da Mosca e zittire tante voci domestiche maliziose.

A forza di smarcarsi dai russi però, nel giro di un anno, Trump è senza dubbio riuscito a tranquillizzare i suoi, ma anche a trasformare la geopolitica in una grande partita di bingo: intanto tiriamo, poi vediamo che succede.

Sulle scelte di Trump ha indubbiamente grande peso il cosiddetto Deep State, quel labirinto oscuro che unisce i liberal Dem alla vecchia guardia repubblicana in un idillio connesso alle lobbies di potere della politica Usa. I primi, alla continua ricerca di cause nobili dietro cui nascondersi; i secondi, convinti che John Wayne sia ancora vivo e soprattutto che Breznev non sia mai morto.

Il Novecento è finito da quasi venti anni; la Guerra fredda da quasi trenta, ma gli interessi sono lenti a cambiare e quando si tratta di Stati Uniti, si sa, ci vuole flessibilità e una buona dose di pazienza.

Come si diceva in testa, aprile è un mese di primavera, e per tradizione porta con sé le armi chimiche. A Damasco è diventata un’abitudine a cui nessuno sembra voler più rinunciare: con la bella stagione, quando si sta per vincere una battaglia decisiva, allora si decide di rovinare tutto, massacrando civili senza motivo col gas nervino. Farsi incolpare di crimini contro l’umanità giusto quando non serve, deve essere una prerogativa dei siriani. Era successo nell’imminenza della riconquista di Aleppo, dopo la liberazione di Palmira e subito prima dell’offensiva per riprendere Deir Ezzor.

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La verità a cui dobbiamo credere a quanto pare è una sola: ad aprile ai siriani non riescono a frenare l’impulso di usare le armi chimiche, soprattutto se la cosa va contro i loro interessi. In fondo, Bashar al Assad è nato l’11 settembre: qualche legame con i genocidi dovrà pur esserci…

Va detto che per aiutare Damasco in questo gioco masochista, c’è anche la fondamentale collaborazione dei media, notoriamente obiettivi sulla guerra in Siria.

Il punto di partenza sono le fonti locali, soprattutto quelle che per questioni di eleganza non forniscono mai prove ma puntano tutto su simpatia e fiducia. Nella Siria del nord in particolare, si fa riferimento a due colossi dell’informazione indipendente: i Caschi Bianchi e l’Osservatorio siriano per i Diritti Umani.

Basta una breve ricerca su internet, per capire su quali dati oggettivi si fondino le attuali strategie mediorientali di Usa, Gran Bretagna e Francia.

Difficile dire se il grande Truman Show a cui stiamo assistendo, sia più comico o drammatico. Fatto è che le scelte di questi giorni, possono incidere sulla vita di miliardi di persone…

La riflessione è obbligatoria, perché se le regole d’ingaggio non cambiano, cambiano viceversa gli scenari su cui esse vanno ad operare.

In altri termini, la situazione in Siria di oggi è diversa da quella di inizi 2017. Assad ha sostanzialmente vinto la guerra e l’asse politico fra Russia, Iran e Turchia è un dato di fatto. Per quanto contingente e strumentale, il fronte tra Mosca, Teheran e Ankara, alla luce della situazione in Iraq e Libano, sintetizza una pesante sconfitta strategica del fronte atlantista in Medio Oriente. Uno stato dell’arte che riguarda scelte ed errori di almeno un ventennio.

A questo proposito val bene fare una precisazione. L’attuale amministrazione Trump, per quanto ondivaga e connotata da istinti geopolitici adolescenziali, eredita comunque un teatro operativo molto delicato. Che gli Usa tentino di tenere in vita la fiammella dei propri interessi, abborracciando strategie con Israele e Arabia Saudita, è comprensibile. Washington rischia di veder ridotta sensibilmente la propria influenza in Medio Oriente e istericamente cerca di far valere il ruolo unilaterale di superpotenza.

Molto meno comprensibile è il ruolo di alcuni governi europei, che generano indirizzi politici sempre più distanti dai sentimenti delle masse, espressi in modo chiaro nei periodici appuntamenti elettorali.

In particolare si nota il ruolo di Parigi, dove l’atlantismo che si credeva sepolto con Sarkozy, sembra tornato in voga, con buona pace di De Gaulle ormai stanco perfino di capovolgersi nella tomba.

Col suo stile renziano a cavallo fra buonismo liberal e alta finanza e con la consapevolezza di essere nato in laboratorio per arginare le cosiddette derive populiste, Macron finge di non sapere una cosa: sta dando la caccia al cattivo sbagliato.

La Francia è bersaglio del terrorismo islamista da anni. Una fervida collaborazione con Damasco aveva permesso negli anni la creazione di un filtro di intelligence importante. La frenesia atlantista ha invece finito col logorare in soli dieci anni un legame storico fra Francia e Siria, patrimonio utile per tutta l’Europa.

Prendersela con Assad per inesistenti armi chimiche, quando la Francia è ostaggio di una rete jihadista sunnita ormai connessa col suo tessuto sociale, appare ridicolo. Le attuali strategie occidentali in Siria lasciano profondamenti perplessi: non tanto perché non ci sono, quanto perché sembrano incredibilmente stupide.

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