Da oltre un anno giornalisti, analisti e politici si interrogano sul destino del conflitto ucraino. Tutti hanno provato a cercare una chiave per interpretare l’evolversi di una guerra che ha cambiato per sempre la storia mondiale. I modelli classici applicati allo scontro tra Mosca e Kiev sono noti: quello israeliano, quello coreano, il finlandese e pure il caotico scenario libico.

Lo spettro della “long war”

Eppure le variabili in gioco impongono di guardare a un altro modello, anzi a due: quello della guerra in Vietnam e quello dell’Afghanistan. Non che nessuno ci abbia pensato. In molti hanno visto nell’intervento di Vladimir Putin la riproposizione di guerre d’attacco finite in un pantano e poi con un fallimento epocale. Non a caso la tomba degli imperi ha inghiottito prima l’Armata rossa e poi l’esercito americano. Ma entrambi insegnano anche quanto sia pericolosa una “long war” che si trascina per anni senza soluzione di continuità: in termini di vite umane, di costi economici e di perdita di influenza globale.

La lezione vietnamita potrebbe essere la più utile per l’Europa. La grande “non pervenuta” del conflitto. Sappiamo che Emmanuel Macron (e più timidamente Olaf Scholz) hanno provato a mediare fino all’ultimo con Mosca prima che scattasse l’ordine per l’operazione militare speciale. Anche dopo il 24 febbraio 2022 l’inquilino dell’Eliseo ha chiamato varie volte il Cremlino. Eppure alla fine tutti hanno scelto di schierarsi con Kiev e l’appoggio politico e militare a Zelensky è aumentato esponenzialmente. Eppure il rischio è di avere risultati limitati. E questo perché ancora sfugge il concetto di cosa sia “realmente” la vittoria. Di quale sia il limite ultimo che riporterà il sereno nel Vecchio Continente.

Un vertice tra Emmanuel Macron e Vladimir Putin l’8 febbraio del 2022 (poco meno di 20 giorni prima che scoppiasse la guerra) Foto: EPA/SERGEY GUNEEV

I limiti al concetto di “vittoria”

La questione “vietnamita” deriva quindi da un problema di fondo: quale sarà il vero limite che di fatto congelerà il conflitto in Ucraina (o lo farà finire)? Gli scenari potenzialmente sono molti, ma pochi sono plausibili:

  1. Competo ritiro delle forze russe (comprese le regioni di Crimea e Donbass)
  2. Crollo del sistema di potere intorno a Vladimir Putin
  3. Colpo di stato a Kiev e caos interno
  4. Allargamento del conflitto
  5. Occupazione permanente delle regione sud orientali da parte di Mosca

I primi due punti sono i più remoti. Kiev non dispone di forze sufficienti, in termini di uomini e mezzi, per sfondare le linee che Mosca ha costruito nell’ultimo anno. D’altro canto non ci sono segnali di crepe intorno al sistema che sostiene lo Zar. E allo stesso tempo una sua dipartita non esclude l’ascesa al potere di nazionalisti russi altrettanto bellicosi.

Il terzo e quarto scenario sono quelli più temuti dagli Usa e dall’Europa, perché sono i meno controllabili. Sappiamo che una fetta degli apparati di Kiev si muove in autonomia. L’attacco nella regione di Belgorod che ha visto l’apporto di frange neo naziste russe della galassia anti Putin ne è un esempio. Una vicinanza che preoccupa Washington e che dovrebbe allarmare anche Bruxelles. Come hanno rilevato gli 007 americani anche i tentativi di attaccare direttamente il Cremlino di inizio maggio sono stati compiuti da operativi ucraini. Forze che forse si sono mosse senza l’ok di Zelensky, con quest’ultimo che probabilmente non era stato informato.

Il blitz con due droni avvenuto contro il Cremlino all’inizio di maggio

Le variabili impazzite a Kiev

Elementi che compongono un mosaico inquietante: l’Europa non ha abbastanza strumenti per controllare quello che succede in Ucraina e poco oltre i suoi confini. Ma soprattutto non ha modelli per prevederlo. C’è un piano in caso di colpo di Stato contro Zelensky? C’è un piano nel caso in cui le operazioni in territorio russo superino la linea rossa e facciano allargare il conflitto? Non lo sappiamo. E forse nessuno lo sa per davvero a Bruxelles.

L’ultimo punto, la prolungata occupazione russa, si unisce ai continui segnali che arrivano dal Pentagono. L’ultimo in ordine di tempo dal solito capo di stato maggiore della Difesa Usa, Mark Milley: “Questa guerra non verrà vinta dalla Russia. Eppure”, ha aggiunto”, “la presenza di centinaia di migliaia di soldati russi in territorio ucraino rendono improbabile “bel breve termine” una riconquista di tutto il territorio da parte di Kiev”. Una sentenza su chi sperava di vedere segnali di pace già nel 2023.

Un pantano che durerà mesi, forse anni. “I combattimenti continueranno, anche in modo sanguinoso”. Un’incertezza che continua a non avere una soluzione. Come ha notato in un editoriale il politico americano Joseph M. Siracusa, negli anni 60 e 70 c’era una verità diffusa tra analisti e politici: gli Usa non sarebbero mai stati in grado di vincere la guerra del Vietnam. Ma nonostante questo il conflitto si portasse per oltre un decennio. Analogamente oggi lo scenario della “impossibilità della vittoria” rimane il più plausibile.

Due elicotteri Bell UH-1D nel Vietnam del Sud (estate 1966)

La trappola europea

L’Europa rischia di finire in un Vietnam che continuerà a dragarle forze (economiche e militari) senza però arrivare mai a conclusione. L’industria bellica, a pieno regime per recuperare anni di dismissioni (vedi gli eserciti di Francia e soprattutto Germania) di fatto ha colmato i limiti di Kiev e impedito al governo di Zelensky di crollare, ma non è in grado di fornire il supporto decisivo alla sconfitta russa. Sconfitta che fra l’altro sarebbe a sua volta difficile da gestire. Si è infatti creato un amaro paradosso per cui la soluzione di una guerra, a favore di Kiev, potrebbe essere l’inizio di un nuovo pericoloso problema ancora più a Est con una Russia sconfitta ma rabbiosa.

Nel frattempo l’economia europea rimane in sofferenza. Niall Ferguson, editorialista di Bloomberg ha paragonato l’attuale situazione ai caotici anni 70: Guerra fredda pericolosa (il braccio di ferro tra Usa e Cina) e inflazione che rende nervosi i mercati. In mezzo un rebus energetico che porta con sé incognite e altre tensioni. L’Europa guarda ad altri fornitori non senza problemi, come insegna, giusto per fare un esempio, la partita per il gas nel Mediterraneo Orientale che rischia di infiammare le tese relazioni tra Turchia e Grecia.

La palude, nei fatti, rischia di rendere l’Europa un vaso di coccio tra i vasi di ferro Cina e Stati Uniti. Azzoppata da una guerra alle sue porte che non sembra avere soluzione, limitata sul piano energetico e industriale e percorsa da tensioni sul piano sociale con lo spettro di un nuova recessione.

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