Il generale Qasem Soleimani, comandante delle forze speciali delle Irgc, le Guardie della Rivoluzione Islamica dell’Iran, denominate Brigate al-Quds (tradotto Brigate Gerusalemme) è rimasto ucciso, insieme ad Abu Mahdi al-Muhandis, vice comandante delle Forze di Mobilitazione Popolari, una milizia sciita filoiraniana, e fondatore di Kataib Hezbollah, a poca distanza dall’aeroporto di Baghdad a seguito di un raid americano.
L’attacco di precisione è avvenuto dopo una notte di altissima tensione a causa delle numerose esplosioni che si sono registrate proprio nei pressi dello scalo aereo della capitale irachena. Nella mattinata di ieri è arrivata la conferma che il generale Soleimani è stato al centro di un decapitation strike americano su ordine diretto, questa la versione fornita dal Pentagono, dello stesso presidente Donald Trump. Anche Teheran, nelle parole del ministro degli Esteri Javad Zarif, ha confermato la morte del comandante delle Brigate al-Quds in un comunicato dai toni molto duri. “L’atto di terrorismo internazionale degli Stati Uniti con l’assassinio del generale Soleimani, la forza più efficace nel combattere il Daesh, Al Nusra e Al Qaeda, è estremamente pericolosa e una folle escalation”, sono state le parole di Zarif.
Le Brigate al-Quds, anche dette Forza Quds, sono il ramo delle Irgc, i Pasdaran, che si occupano delle operazioni speciali iraniane all’estero: il gruppo è infatti impegnato in Siria e in Iraq al contrasto di quello che resta delle forze militari di Daesh, il gruppo terrorista di matrice wahabita che ha dato vita al sedicente Stato islamico. Le Brigate al-Quds vengono definite da Stati Uniti e Israele un gruppo terroristico, ma la realtà è diversa: la loro organizzazione – ed il fatto che siano a tutti gli effetti un ramo delle Forze Armate Iraniane – le pongono sullo stesso piano di altri reparti come la Delta Force, i Seal o i nostri incursori del Col Moschin, sebbene con compiti molto spesso diversi e che, per certi versi, possono essere letti come di stampo terroristico.
Il raid americano, che sarebbe stato condotto da droni col supporto di caccia F-15 che sono stati notati decollare dalle basi americane ha eliminato un comandante iraniano che si è trovato dalla stessa parte degli Stati Uniti e degli alleati della Coalizione in più di una occasione: in Afghanistan le Brigate al-Quds di Soleimani hanno contrastato l’attività dei Talebani legata al narcotraffico, problema fondamentale per l’Iran che si trovava ad essere attraversato dalle vie dell’oppio afghano.
Essere dalla stessa parte della barricata su alcuni fronti, però, non significa affatto essere alleati, soprattutto quando gli interessi regionali sono diversi e sono in aperto contrasto: le Brigate al-Quds in Siria hanno infatti combattuto anche le forze “anti-Assad” sostenute dagli Stati Uniti, i cosiddetti “ribelli moderati”, riducendole sulla difensiva anche grazie all’appoggio russo più o meno diretto. Russia che, però, ha sempre avuto una linea accomodante nei riguardi di Tel Aviv tollerando i numerosi raid aerei che le Idf hanno condotto in questi anni contro gli obiettivi iraniani in Siria, ritenuti essere la rete logistica per gli attacchi delle milizie filorianiane lungo i confini con Israele, almeno sino allo scorso 21 novembre quando il viceministro e rappresentante speciale per il Medio Oriente, Mikhail Bogdanov, ha condannato l’attacco israeliano: “La conduzione di raid aerei sul territorio di un Paese sovrano è una aperta violazione delle leggi internazionali che rischia di rafforzare ulteriormente la stabilità nel Paese”. Dichiarazioni che segnano un cambio di passo al Cremlino.
L’attacco di decapitazione di ieri ha quindi eliminato la figura in assoluto più importante per la condotta delle operazioni all’estero di Teheran. Se oggi si parla di “Mezzaluna sciita”, ovvero di quella sfera di influenza retta dall’Iran che unisce Baghdad al Libano passando per la Siria, lo si deve principalmente al suo operato di questi anni.
Il generale Soleimani andava quindi eliminato nell’ottica statunitense ma non solo: anche Israele aveva cercato il decapitation strike lo scorso agosto, il 25, a Beirut durante un incontro al vertice tra le forze sciite, ma il tentativo fallì. Il generale, inoltre, proprio per la sua fama e altissima considerazione di cui gode in patria tra la popolazione, potrebbe essere stato vittima anche di una sorta di “intrigo di palazzo” in quanto stava cominciando a essere considerato un personaggio scomodo per gli ambienti militari e politici iraniani di alto livello e quindi si può pensare che ci sia stato un delatore che lo abbia venduto agli americani.
Soleimani, infatti, si sentiva relativamente sicuro a Baghdad, almeno sino a pochi giorni fa, nonostante i recenti raid americani contro le milizie di Kataib Hezbollah tanto da non aver sentito l’esigenza di lasciare la città, sebbene il fatto che sia stato ucciso in prossimità dell’aeroporto potrebbe lasciar intendere che questa condizione di “sicurezza” fosse terminata e che quindi si apprestasse a lasciare la capitale irachena per tornare in patria: una simile eventualità spiegherebbe il raid americano per cercare di eliminarlo prima che fosse troppo tardi.
L’attacco, dato il livello della personalità, può essere stato condotto, pertanto, solo grazie a qualche fuga di notizie interna: che sia da parte irachena legata alle milizie filo Hezbollah, o addirittura da parte iraniana. Soleimani infatti non era un “guerrafondaio” nonostante quello che taluni hanno affermato, ma un fine stratega che aveva ben chiaro come agire per gli interessi nazionali (riuscendoci peraltro) e il suo ascendente, il suo carisma, potrebbero avergli procurato parecchi nemici sul fronte interno: nel 2021 sarebbe stato un possibile candidato alla presidenza che avrebbe quasi sicuramente sconfitto ogni avversario, anche se non sappiamo quali fossero le sue intenzioni in merito.
È stato quindi eliminato un personaggio tra i più influenti del panorama politico internazionale contemporaneo, ma nonostante questo è molto improbabile, sebbene non impossibile, che l’azione americana possa scatenare un conflitto di più vasta scala che potrebbe addirittura degenerare in uno mondiale: difficilmente l’Iran colpirà direttamente, quindi non usando i suoi proxy, obiettivi americani in Iraq o in Medio Oriente, in quanto a Teheran sono coscienti che fornirebbero un pretesto agli Usa per effettuare un’azione militare che potrebbe portare a un cambio di regime nel Paese.
Quest’ultima eventualità avverrebbe con modalità diverse rispetto a quelle dell’attacco all’Iraq del 2003 quando il Paese fu invaso: la consistenza dell’esercito iraniano e la geografia stessa dell’Iran non lo permetterebbero se non a costi umani elevatissimi. Costi che gli Stati Uniti non si possono sobbarcare. Semmai sarebbe più plausibile una campagna di bombardamenti – con velivoli e missili da crociera – per colpire obiettivi di rilevanza strategica (come l’arsenale missilistico iraniano e i siti nucleari), sulla falsa riga di quanto avvenne in Serbia nel 1999.
Anche a Washington, sebbene in alcuni ambienti ci siano dei “falchi” che vedrebbero di buon occhio un attacco risolutivo all’Iran, riteniamo che non si voglia intraprendere la strada del conflitto aperto: l’eliminazione di Soleimani è però funzionale al voler riordinare gli assetti nel Golfo Persico soprattutto dopo che l’Iran ha dimostrato di avere degli “alleati” forti (la Cina e la Russia) che però potrebbero defilarsi in caso di escalation militare, senza dimenticare il grossissimo fattore propagandistico interno alle soglie delle elezioni presidenziali oscurate dallo spettro dell’impeachment.