Le ale più oltranziste della politica e della società del blocco occidentale hanno invocato la linea (più) dura nei confronti della Russia sin dagli esordi della guerra in Ucraina. Chi ieri chiedeva l’imposizione di una zona d’interdizione al volo (no fly zone) sui cieli del teatro bellico, ignorando consapevolmente o meno che ciò avrebbe comportato una guerra mondiale, oggi esige un embargo energetico che disaccoppi integralmente e totalmente l’euromercato dei combustibili fossili da quello russo. Se la prima opzione era impraticabile, perché troppo rischiosa, la seconda va lentamente facendosi strada.
In principio è stata l’amministrazione Biden a dire addio ai combustibili fossili di origine russa. Poi, a seguire, l’annuncio dell’esecutivo Johnson sull’apertura dei lavori per la disconnessione dal mercato energetico russo entro la fine dell’anno. Ma a fare da sfondo, a parte il congelamento del Nord Stream 2 e i primi passi dell’eurocomunità verso la diversificazione, un aumento significativo degli acquisti di beni energetici dalla Russia.
In molti intravedono nel continuo attingimento al mercato energetico della Russia l’espressione plastica dell’ipocrisia dell’Occidente, riluttante armiere dell’Ucraina ed entusiasta cliente del Cremlino. Una ricostruzione che ha sicuramente del vero, perché che l’economico gas russo continui a far gola a tanti è innegabile, ma che pecca di miopia, non contempla spiegazioni alternative e ritiene il blocco occidentale a guida statunitense privo di una bussola. Quando non è così. Perché la strategia della Casa Bianca, che ha come fine il logoramento del Cremlino, potrebbe avere come mezzo una tattica messa all’ingrasso di reaganiana memoria.
Duplice logoramento?
Disse un tal Lenin, più di un secolo or sono, che “i capitalisti ci venderanno la corda con cui li impiccheremo”. Una frase adattabile ad una moltitudine di contesti e occasioni, inclusa la guerra in Ucraina, e che potrebbe oggi suonare in questo modo: “I russi stanno vendendo agli occidentali il gas per riscaldarli, ricevendo in cambio denaro da spendere in una guerra in cui gli stessi li stanno logorando”.
Suicidio per impiccagione. Decesso per ferite autoinflitte. Questa, più che la fine a cui destinata è la Russia – perché le relazioni internazionali sono il dominio dell’imprevedibilità che travolge certezze e determinismi –, è la speranza-aspettativa dell’amministrazione Biden, che ha ingabbiato Vladimir Putin nella tagliola ucraina per uno scopo ben preciso: logorarlo fino ad una letale astenia, cioè morte per eccesso di affaticamento.
L’Ucraina come fava per prendere due piccioni: l’acerrima rivale Russia e l’aminemica Unione Europea a trazione franco-tedesca. La prima da condurre allo sfinimento a mezzo delle armi, in un teatro bellico che mescola elementi vecchi, dall’Afghanistan degli anni Ottanta e dal Vietnam degli anni Settanta, e nuovi, come la guerra senza limiti. La seconda da indebolire cronicamente, con la messa in letargo del partito dell’autonomia strategica, facendo leva su quinte colonne – come i Verdi tedeschi –, poli di potere – come il blocco polacco-baltico – e arieti esterni – il bellicista Regno Unito dell’era Johnson – impegnati nel sabotaggio del tavolo negoziale tra maxi-sanzioni alla Russia e rifornimenti ingenti di armamenti all’Ucraina.
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Ricordando Reagan
Sono le contraddizioni a fondamento dell’incremento notevole degli acquisti di beni energetici russi nel periodo marzo-aprile a suggerire la tesi del “duplice logoramento”. Mentre Stati Uniti e Regno Unito applicano sanzioni dal debole ritorno di fiamma e guidano lo shopping del gas, in una maniera tanto insolita da aver attratto critiche da più parti – un record di circa 90mila barili di greggio acquistati giornalmente nel mese di marzo dagli americani –, esercitano simultaneamente pressioni sull’Unione Europea affinché acceleri il processo di diversificazione – cioè di disaccoppiamento – e implementi rappresaglie economico-finanziarie più rigide. Una guerra dell’Anglosfera per assoggettare l’Europa e stremare la Russia combattuta dall’Europa (armata dall’Anglosfera) contro la Russia.
Se lo schema antieuropeo è più chiaro, e come avrebbe funzionato lo avevamo spiegato all’alba dell’era Biden, la logica del logoramento di stampo reaganiano potrebbe risultare più difficile da comprendere alle nuove generazioni e ai digiuni di storia mediorientale. Gli Stati Uniti, all’indomani della Rivoluzione khomeinista, intravidero nella strumentalizzazione degli antichi dissapori tra sunniti e sciiti e delle irrisolte dispute territoriali un modo per indebolire due aspiranti egemoni fuori controllo: l’Iran dell’imam Khomeini e l’Iraq di Saddam Hussein.
Per otto anni, dal 1980 al 1988, gli Stati Uniti appoggiarono entrambi i belligeranti allo scopo di prolungare la durata di un conflitto in perenne stallo. A Baghdad, peraltro maliziosamente incoraggiata ad aggredire per prima, supporto in termini di intelligence – anche quando (ri)utilizzata per condurre crimini di guerra –, tecnologia a duplice uso, prestiti “ufficialmente mai erogati” e armi vendute sottobanco da una di rete di partner. A Teheran, nonostante il gelo diplomatico di facciata e l’embargo in vigore, il medesimo sostegno. Risultato finale: otto anni di guerra, due rivali regionali battuti col minimo sforzo e col massimo profitto – sia economico sia geopolitico.
La storia della guerra Iran-Iraq insegna come e perché sia possibile vincere un nemico nella maniera apparentemente più paradossale, sciocca e irrazionale: il finanziamento della sua campagna bellica. Perché non conta quanto denaro viene elargito: è fondamentale il modo in cui viene speso da chi lo riceve. E la Russia, ugualmente all’Iran e all’Iraq, si trova nel mezzo di una guerra, alle prese con un’industria degli armamenti da stimolare e un pantano da superare, che richiede l’investimento di ogni singolo centesimo in armi.
Mentre la Russia profitta degli ingressi straordinari di rubli nelle casse statali per rifornire le truppe al fronte di armi e veicoli, l’Ucraina riceve una pioggia di armamenti avanzati e di intelligence, sullo sfondo dell’afflusso di mercenari e combattenti volontari. Un logoramento di reaganiana memoria, aggiornato dall’abile duo Austin-Blinken, che sino ad oggi ha permesso agli Stati Uniti di conseguire dei risultati notevoli nella trincea ucraina, in primo luogo il sensibile ridimensionamento degli obiettivi in loco del Cremlino. Il che è già una vittoria.
Per capire quale sarà l’impatto globale di questa guerra di logoramento sullo stato di salute della Russia e del sistema putiniano, cioè se in Ucraina sono stati inferti dei colpi mortali oppure sanabili, si dovrà posare lo sguardo sul medio termine. E molte sono le variabili che il duo Austin-Blinken dovrà tenere in considerazione nel calcolo della morte per astenia dell’era Putin: dalla resistenza dell’economia nazionale alla respirazione artificiale fornita dai membri del partito del multipolarismo. Perché tutto si giocherà, infatti, nel secondo tempo.