La resistenza di Kiev, a quasi un anno dall’inizio della guerra, si basa su diversi livelli di aiuti forniti dall’Occidente. Tra questi, uno degli elementi essenziali è rappresentato dalla protezione di Kiev e dei centri strategici ucraini dalla minaccia che proviene dall’alto: quei missili e droni di fabbricazione russa (ma anche iraniana) che stanno martellando il Paese.
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si è sempre espresso nella maniera più categorica sulla necessità che il blocco euro-atlantico fornisse alle forze armate di Kiev qualsiasi sistema utile a limitare l’efficacia dei raid russi. Un bisogno essenziale non solo per proteggere i civili, ma soprattutto per evitare che il sistema militare, industriale e infrastrutturale del Paese venga logorato da una strategia che, specialmente dopo l’arrivo del generale Surovikin, si è fatta spazio nei piani di Mosca. Così, su pressione di Zelensky, l’Ucraina ha iniziato nel tempo a ricevere un flusso di sistemi necessario – ma non sufficiente – a costruire un ombrello di protezione dagli attacchi di Mosca.
Il ministro della Difesa ucraino, Oleksiy Reznikov, aveva annunciato a novembre l’arrivo di sistemi Nasams e Aspide da Norvegia, Spagna e Stati Uniti. Prima ancora era arrivato invece il sistema tedesco Iris-T. Questi sistemi, integrati tra loro, hanno formato uno scudo che ha permesso fino a questo momento a Kiev di limitare la portata dei raid delle forze russe.
La fretta dell’Ucraina
Tuttavia, e questo è un dato che sta trapelando soprattutto nelle ultime settimane, la richiesta di Zelensky e degli strateghi ucraini è quella di non potere fare affidamento soltanto su questo ombrello. Il lancio di missili e droni da parte di Mosca ha infatti continuato a colpire in profondità il territorio ucraino mostrando una capacità e una quantità di munizioni che per certi versi ha sorpreso gli osservatori più ottimisti, che avevano probabilmente sottostimato l’industria bellica russa. E questo chiaramente è un tema essenziale, perché va letto alla luce del numero di munizioni a disposizione degli arsenali occidentali, al loro costo e alla capacità di trasporto fino in Ucraina. Inoltre, molti ritengono essenziale colpire in modo più chirurgico e letale la pioggia di missili e di velivoli kamikaze nemici, motivo per il quale ora la richiesta si è spostata anche sui Patriot di Raytheon e sul sistema Samp-T dal consorzio europeo Eurosam.
Su quest’ultimo, l’Italia ha posto dei dubbi legati alla necessità di dover bilanciare l’esigenza ucraina con quella della difesa dei cieli nazionali. In attesa del sesto pacchetto di aiuti militari a Kiev, dalla Difesa sono stati lanciati interrogativi sul pericolo di rimanere senza protezione per il numero limitato di sistemi (due batterie sono già in Kuwait e Slovacchia). Dubbi che al momento sono ancora in fase di valutazione. Per quanto riguarda il Patriot, se sono giunti in Oklahoma i primi soldati ucraini che devono essere addestrati all’utilizzo di questo sistema, quello che ora lascia perplessi è il tempo necessario a completamente il training.
Il Pentagono, all’inizio, aveva parlato di un anno, poi il colonnello Curtis King aveva precisato che si tratta di mesi. In ogni caso, quello che appare come incontrovertibile è che non è possibile apprendere in poche settimane a usare in modo preciso un mezzo che non è solo molto sofisticato ma anche estremamente costoso. Al punto che già alcuni osservatori avevano posto il dubbio della differenza tra il costo di un drone iraniano o di un missile russo abbattuto rispetto a quello di una munizione occidentale impiegata per abbatterlo.