La precipitosa ritirata degli Stati Uniti dall’Afghanistan, che ha consentito una rapidissima vittoria dei talebani, ricorda a molti la partenza degli ultimi americani da Saigon. Ma, più in generale, pone interrogativi sul neo-isolazionismo statunitense. L’amministrazione Biden non mostra alcun segno di ravvedimento. Il ritiro era considerato “inevitabile”, l’esito scontato. Anche il Segretario di Stato Antony Blinken, mentre i talebani occupavano il palazzo presidenziale di Kabul, respingeva ogni paragone con Saigon e affermava che tutti gli obiettivi dell’intervento statunitense in Afghanistan fossero stati raggiunti. Se ne deduce che, quel che sta accadendo adesso, sia ormai estraneo agli interessi americani, un atteggiamento tipicamente isolazionista.

L’idea di ritirarsi dall’Afghanistan non nasce dall’amministrazione Biden. I critici di questa decisione hanno buon gioco a puntare il dito sul suo predecessore repubblicano, Donald Trump, perché è lui che a Doha, il 29 febbraio 2020, ha siglato gli accordi con i rappresentanti dei talebani, di fatto spianando la strada al ritiro e ponendo fine al lungo conflitto. Gli accordi di Doha, pur non riconoscendo la legittimità dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan (il governo talebano) prevedevano un calendario di negoziati fra quest’ultimo e il governo (riconosciuto) di Kabul e, al contempo, un piano di ritiro graduale di tutto il personale militare e civile statunitense dal Paese.

In cambio, l’Emirato si è impegnato a garantire la sicurezza degli Stati Uniti, dunque a non fornire più le basi a movimenti terroristici internazionali sul suolo afgano. L’amministrazione Trump aveva promesso di porre fine alla lunga guerra in Afghanistan, sin dalla campagna elettorale del 2016, e ha ritardato questa conclusione, di anno in anno, solo a causa del peggioramento delle condizioni militari sul terreno. L’amministrazione Biden non ha fatto altro che seguire l’agenda dettata dagli accordi di Doha, anche se l’ha accelerata. Contrariamente a Trump, infatti, ha ritirato tutto il personale statunitense nonostante l’offensiva talebana fosse in corso e un accordo fra Emirato e governo di Kabul fosse ormai impossibile.

Tuttavia, non è nemmeno attribuibile a Trump il programma di ritiro delle forze statunitensi dall’Afghanistan, ma risale ai tempi dell’amministrazione di Barack Obama. Nel suo primo mandato, il presidente democratico aveva rafforzato il contingente statunitense, ritenendo quello afgano come una “War of Necessity” (guerra per necessità, dunque indispensabile), contrapponendolo a quello iracheno che era una “War of Choice” (guerra per scelta, meno indispensabile). Obama ha puntualmente ritirato le truppe combattenti Usa dall’Iraq entro il dicembre 2011, come aveva promesso nella sua campagna elettorale del 2008. Però aveva, al contempo, rafforzato il contingente statunitense in Afghanistan, ottenendo anche una maggior partecipazione della Nato.

Nel febbraio 2009, primo anno di Obama, gli Usa inviarono un contingente di 17mila uomini nel Paese asiatico, che si sommarono ai 32mila già schierati. Gli screzi fra comando militare e amministrazione, però, iniziavano già allora. Il generale McChrystal, per aver criticato pubblicamente, in un’intervista su Rolling Stone, la riluttanza di una parte dell’amministrazione a intraprendere una vera escalation, venne rimosso dal comando e sostituito da David Petraeus, eroe della guerra in Iraq. McChrystal accusava soprattutto l’allora vicepresidente Joe Biden di essere apertamente contrario alla prosecuzione dell’intervento americano in Afghanistan. Il 2 maggio 2011, Osama bin Laden venne ucciso da una squadra di Navy Seals ad Abbottabad: in Pakistan, non in Afghanistan.

La caccia allo “sceicco del terrore” e la guerra contro Al Qaeda erano gli obiettivi principali dell’intervento in Afghanistan. Il fatto che l’obiettivo principale fosse stato raggiunto con un raid in Pakistan diede forza alla corrente dell’amministrazione favorevole al ritiro dall’Afghanistan. Un mese dopo, l’allora Segretario alla Difesa Robert Gates (un ex direttore della Cia) rivelò per la prima volta alla stampa che erano in corso dei primi contatti segreti “di riconciliazione” con rappresentanti dei talebani. Fu un chiaro segnale di disimpegno americano nella regione.

Il 22 giugno 2011, nemmeno due mesi dopo l’uccisione di bin Laden, Obama annunciò il ritiro dall’Afghanistan: la forza combattente si sarebbe dovuta ridurre di nuovo a 30mila uomini entro un anno e a zero entro il 2014. Da allora il destino della missione fu segnato. Anche i contingenti alleati, inclusi quelli della Nato, entrarono nell’ordine di idee di andarsene non appena concluso il lavoro di addestramento di un esercito locale. Tuttavia, nonostante i tentativi di colloqui di “riconciliazione” con i talebani, la guerriglia jihadista riprese forza subito dopo il primo annuncio di ritiro statunitense. Così la data finale venne posticipata dal 2014 al 2016, perché gli Usa non intendevano lasciare il Paese nelle mani dei talebani, facendo apparire il loro disimpegno come una sconfitta. Alla fine, sempre a causa dell’escalation della guerriglia talebana, le truppe non tornarono a casa neppure per la fine del 2016. Nella sua campagna elettorale, Trump ebbe buon gioco a promettere di fare quel che Obama aveva solo annunciato.

La fine della lunghissima “War of Necessity”, ampiamente prevedibile sin dall’estate del 2011, non è un caso isolato. La tendenza americana, a ritirare la propria presenza militare, riguarda tutti i teatri di conflitto e potenziale conflitto. Dalla fine della Guerra Fredda ad oggi, la presenza militare statunitense in Europa è passata dai 320mila uomini del 1991 ai 64mila odierni. Era nelle intenzioni di Obama, nel 2013, ridurre ulteriormente il contingente nel Vecchio Continente a soli 35mila uomini, ma lo scoppio della guerra in Ucraina (dunque la richiesta di maggior protezione da parte, soprattutto, dei Paesi Baltici e della Polonia) lo ha indotto a moderare il suo piano di disimpegno. Anche nel Pacifico settentrionale, altro principale teatro di potenziale conflitto, la presenza Usa è ora ridotta a 80mila uomini in tutto, di cui 55mila in Giappone e 26mila in Corea del Sud. Alla fine della Guerra Fredda erano 40mila nella sola Corea del Sud e sono stati costantemente ridotti, anno dopo anno.

La tendenza statunitense a ritirarsi dal mondo è evidente anche nella politica estera. Sebbene sia ora ricordato come un “falco” interventista per aver iniziato i conflitti in Afghanistan (2001) e in Iraq (due anni dopo), George W. Bush venne votato dalla maggioranza degli americani nel 2000 come candidato isolazionista. Gli Usa erano appena intervenuti due volte nei Balcani, sotto l’amministrazione Clinton (1995 e 1999) e non avevano più alcuna intenzione di farsi coinvolgere in guerre all’estero. La politica estera di Bush dovette cambiare drasticamente a causa degli attacchi a New York e Washington dell’11 settembre 2001.

Obama vinse nel 2008 dietro la promessa di ritirare le truppe americane dall’Iraq. E diede da subito chiari segni di non volersi impegnare in altri conflitti all’estero. In Libia, il 19 marzo 2011, l’intervento militare contro Gheddafi fu iniziato dalla Francia. Il lancio di missili Tomahawk della marina americana, che, dalla Guerra del Golfo del 1991, marcava l’inizio delle operazioni internazionali, fu lanciato ore dopo, come secondo colpo. Nel corso della lunga campagna aerea in Libia che ne seguì, gli Usa mantennero una posizione di “leading from behind”, concettualmente un ruolo di guida, ma da una posizione defilata. Due anni dopo, nel 2013, Obama non intervenne nella guerra civile di Siria neppure dopo la denuncia dell’uso di armi chimiche da parte del regime di Damasco. Al di là della veridicità di queste accuse, tuttora disputate, l’amministrazione Obama aveva promesso un intervento nel caso si fosse passata la “linea rossa” (morale) dell’uso delle armi di distruzione di massa. E non rispettò l’impegno. L’amministrazione successiva, quella di Donald Trump, fu la prima, dai tempi di Carter (1976-1980) a non iniziare nuovi interventi americani all’estero.

L’evacuazione, in elicottero, del personale statunitense dall’ambasciata di Kabul e le dichiarazioni di Blinken sugli “obiettivi raggiunti”, dunque, possono sbalordire, ma non stupire. Sono il culmine di una politica di disimpegno di lungo periodo che ora sta giungendo alle sue logiche, estreme, conclusioni.

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