Non porta bene alla Casa Bianca parlare del pivot to Asia, il riassetto strategico della politica estera che Washington vorrebbe incentrare nello scacchiere dell’Indo-Pacifico ma che gli eventi in Europa e Medio Oriente contribuiscono puntualmente a mettere in difficoltà. Anche se coinvolti in maniera indiretta nelle guerre in Ucraina e nel Mediterraneo orientale, il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, si è affrettato a dichiarare che “siamo impegnati a seguire tutti gli interessi che abbiamo nella regione asiatica”. Ma le rassicurazioni americane sono davvero sufficienti a tranquillizzare gli alleati alle prese con una Cina sempre più assertiva in un continente che potrebbe ospitare il focolaio del prossimo conflitto globale?
L’evoluzione del Pivot to Asia
È dalla fine del secolo scorso che i partners di Washington assistono ai tentativi americani di sviluppare una strategia coerente in Asia. Nel 1993 le prime missioni oltreoceano di Bill Clinton si svolgono in Giappone e Corea del Sud, visite che si inseriscono in un contesto storico in cui la Cina comincia a mostrare i primi segni della sua aggressività in politica estera. Infatti, nonostante accordi commerciali e incontri tra i rappresentanti Usa e quelli cinesi, la visita negli Stati Uniti del leader di Taiwan Lee Teng-hui scatena nel 1995-96 una crisi nello Stretto con lanci missilistici da parte di Pechino nelle acque antistanti l’isola ribelle. Solo l’invio di unità marine americane nell’area riesce a fermare l’escalation.
Durante la campagna elettorale del 2000 il candidato repubblicano e futuro presidente George W. Bush dichiara che con lui alla Casa Bianca “la Cina non avrà dubbi sul nostro potere, sui nostri obiettivi nella regione e sul nostro impegno deciso verso gli alleati democratici in tutta l’Asia”. Bush non aveva però calcolato come il suo pivot asiatico ante litteram sarebbe stato presto sabotato dal terrorismo, una “distrazione” che avrebbe spostato l’attenzione di Washington sul Medio Oriente e sul mondo arabo.
È Barack Obama a teorizzare formalmente il concetto di pivot to Asia ma le primavere arabe, il conflitto civile in Siria, la minaccia dello Stato islamico e l’esplosione della crisi in Ucraina nel 2014 impediscono all’amministrazione del presidente democratico di affrontare con costanza il nuovo leader cinese Xi Jinping entrato in carica nel 2013. Il suo successore Donald Trump farà del confronto aggressivo con Pechino il centro della sua politica estera e l’inizio di una guerra commerciale che, in parte, prosegue ancora oggi.
Il Pivot oggi
Nel primo anno della sua presidenza Joe Biden ha chiuso, seppur in modo disastroso, l’ultima delle “guerre infinite” dell’America, quella in Afghanistan, aumentando la presenza degli Usa nel continente asiatico. Gli obiettivi di Washington sono apparsi subito chiari: contrastare la politica di militarizzazione portata avanti da Pechino nel Mar Cinese Meridionale e le crescenti provocazioni del Paese del dragone contro Taiwan senza dimenticare il pericolo nordcoreano.
Negli ultimi due anni gli Stati Uniti hanno firmato nuovi accordi di partnership e sicurezza con il Giappone, l’India, le Filippine, il Vietnam e la Papua Nuova Guinea. Hanno rafforzato il Quad, l’alleanza con Giappone, Australia e India, e sottoscritto l’accordo Aukus con Australia e Regno Unito. Washington ha inoltre ampliato le esercitazioni militari congiunte con la Corea del Sud e ha aperto un’ambasciata nelle isole Salomone per cercare di respingere l’avanzata di Pechino nel Pacifico. Le mosse americane non sono sfuggite al presidente Xi il quale a marzo ha affermato che “i Paesi occidentali guidati dagli Usa hanno implementato una strategia di contenimento, accerchiamento e soppressione della Cina”.
Nonostante i notevoli risultati raggiunti da Biden, i partners asiatici sono comunque preoccupati che i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente possano provocare un ritiro degli Usa dall’Indo-Pacifico. “Quello che temiamo è il dirottamento delle risorse militari americane dall’Asia orientale verso l’Europa ed Israele” ha commentato Akihisa Nagashima, parlamentare ed ex consigliere per la sicurezza nazionale giapponese. “Non si tratta solo delle armi ma anche di come addestrare il personale ad utilizzare certi sistemi” sostiene Andrew Nien-Dzu Yang, un ex ministro della Difesa di Taiwan.
L’Ammiraglio John C. Aquilino, comandante Usa dell’Indo-Pacifico, riconosce che l’obiettivo di Pechino è “cacciare gli americani dalla regione” ma la Casa Bianca e il Pentagono hanno dichiarato che ciò non accadrà e che al momento non c’è stata nessuna riduzione della presenza degli Stati Uniti nell’area. Gli occhi di tutto il mondo sono adesso puntati sulle elezioni presidenziali previste a gennaio a Taiwan. Un eventuale esito sfavorevole agli interessi cinesi potrebbe portare Xi a tentare di testare le capacità militari effettive di Washington aprendo un terzo conflitto dagli esiti imprevedibili.