La guerra in Libia è ancora in corso, ma la ricostruzione del Paese è già un business. Le potenziali commesse valgono almeno 150 miliardi di euro e fanno gola a tanti: dall’Italia alla Francia, dalla Cina alla Russia fino alla Turchia, tutti sono interessati al grande giro d’affari che ruota attorno allo scenario post-bellico nell’ex Jamahiriya del defunto Muammar Gheddafi. Secondo un recente rapporto del Centro Studi Confindustria, le perdite dell’economia libica in termini di infrastrutture e capitale produttivo sono pari a circa 150-200 miliardi di euro. Le imprese italiane potrebbe assumere un ruolo di leadership nella ricostruzione, con commesse intorno ai 30 miliardi di euro in dieci anni. A patto però che abbia fine il conflitto militare iniziato il 4 aprile scorso tra il Governo di accordo nazionale (Gna) del premier Fayez al Sarraj e l’Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar. Possibilità che al momento appare remota, visto che nessuna delle parti sembra intenzionata a ritirarsi, nonostante gli oltre mille morti, 5mila feriti e 100mila sfollati causati dalla guerra.
Il rapporto di Confindustria evidenzia come l’Italia in Libia abbia ottime carte da giocare sia nel settore delle infrastrutture che negli impianti di trivellazione ed estrazione di idrocarburi. Da tempo le aziende italiane stanno lavorando alla costruzione di un’autostrada costiera della lunghezza di 1.700 chilometri, dal confine tunisino a quello egiziano, si estende sul tracciato della via Balbia. Il costo stimato è di circa cinque miliardi di dollari in 20 anni. Il primo lotto dell’opera era stato assegnato all’azienda Impregilo, ma la forte instabilità nel Paese ha spinto a sospendere i lavori. Il governo di Tripoli ha manifestato più volte l’intenzione di ripartire con la “fase due” del progetto infrastrutturale, mentre per la “fase uno” (la parte del progetto nella Libia orientale) era già stata fatta una gara d’appalto nel 2012. All’Italia è stata affidata anche la ricostruzione dell’aeroporto internazionale di Tripoli distrutto nel 2014. Si tratta in particolare di un progetto del valore totale di 79 milioni di euro per realizzare due terminal, uno nazionale e uno internazionale, completi di tutti gli impianti aeroportuali per permettere l’apertura di questo aeroporto. Il progetto doveva essere realizzato dal consorzio italiano “Aeneas”, ma lo scalo aereo è stato nuovamente investito dagli scontri armati.
L’Italia del settore energetico in Libia è appannaggio quasi esclusivo di Eni, azienda apprezzata in tutto il Paese e che non a caso continua ancora oggi a operare, seppur a ranghi ridotti e con personale non italiano. Non si tratta solo di estrarre petrolio e gas, ma anche di sfruttare l’enorme potenziale delle energie da fonti rinnovabili. Un potenziale ancora completamente inespresso, ma che potrebbe rivelarsi una vera e propria miniera d’oro per i libici e per le compagnie straniere che porterebbero il “know-how”. Eni ha già fiutato l’affare e si è portata avanti mettendo a disposizione le sue competenze alle autorità di Tripoli. Senza contare che entro il 2022 dovrebbe essere pronto Bahr Essalam (Bes), il più grande giacimento a gas in produzione nell’offshore libico. Insomma sul fronte energetico l’Italia è messa benino, ma non è l’unico player. Prima della rivoluzione contro Gheddafi in Libia erano presenti anche la francese Total, la cinese China National Petroleum Corp (Cnpc), la britannica Bp, il consorzio spagnolo Repsol, le statunitensi ExxonMobil, Chevron, Occidental Petroleum, Hess, Conoco Phillips.
Di particolare rilevanza è il ruolo chiave che stava (e sta ancora) assumendo la Cina. Prima del rimpatrio in seguito alla guerra civile, Cnpc disponeva di una forza lavoro in Libia di 30mila operai e tecnici cinesi, e incanalava l’11% delle esportazioni di greggio. Pechino sembra ora intenzionata a riprendere i progetti “chiavi in mano” avviati durante l’era di Gheddafi, a partire dal settore dei trasporti e delle ferrovie. Prima dell’intervento della Nato nel 2011, China Railway Group aveva avviato nell’ex Jamahiriya tre importanti progetti del valore totale di 4,24 miliardi di dollari: una ferrovia costiera, da ovest a est, della lunghezza di 352 chilometri; una ferrovia di 800 chilometri da sud a ovest per il trasporto di minerale dalla città meridionale di Sebha a Misurata; una ferrovia di 172 chilometri che si estende dalla capitale Tripoli al porto principale di Ras Jedir, al confine con la Tunisia. Almeno 690 milioni sono già stati spesi, ma la guerra ha bloccato tutto e China Railway Group ha richiamato gli operai per motivi di sicurezza.
La tremenda pressione commerciale esercitata dagli Stati Uniti sulla Cina sta spingendo Pechino a cercare nuovi mercati di sbocco e la Libia rappresenta un’ottima opportunità. Riprendere i progetti ferroviari interrotti con la rivoluzione del 2011, partecipare al business della ricostruzione e fare concorrenza ai competitor (come l’Italia nel settore tessile e fashion) porterebbe essere una boccata d’ossigeno per le autorità cinesi strangolate dalla morsa dei dazi Usa. Questo spiega perché Pechino, dopo anni di sostanziale indifferenza sulla Libia, abbia recentemente invitato la Comunità internazionale a intraprendere “misure efficaci” per il cessate il fuoco e per il ritorno al dialogo politico. L’agenzia ufficiale di stampa cinese Xinhua ha riportato un lungo e inusuale intervento di Wu Haitao, vice rappresentante permanente cinese presso le Nazioni Unite, durante la riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu sulla situazione relativa alla situazione nel paese nordafricano. E’ interessante anche la tempistica del rinnovato interesse della Cina per la Libia, cioè poco dopo l’insediamento del nuovo ambasciatore degli Stati Uniti, Richard Norland, e del nuovo comandante Africom (il comando Usa in Africa), Stephen J Townsend. Come a dire: “Qui ci siamo anche noi, non ci taglierete fuori”.
Anche la Russia è rimasta “scottata” dall’intervento militare in Libia del 2011: Mosca, infatti, avrebbe dovuto costruire una linea ferroviaria di 352 chilometri per collegare Sirte alle città occidentali di Misurata e Khoms. Non solo. La Federazione Russa aveva siglato nel 2008, quindi ai tempi del passato regime, un accordo per la fornitura di armamenti e sistemi di sorveglianza sofisticati per un valore di due miliardi di dollari. I media libici vicini alle autorità della Cirenaica hanno riferito tempo fa che l’intesa sarebbe stata riattivata, ma questo è impossibile dal momento che in Libia è in vigore (almeno in teoria) un embargo sulle armi. Embargo ovviamente violato più volte (in particolare da parte di Turchia ed Emirati Arabi Uniti, ma anche dalla Francia) anche se mai alla luce del sole con tanto di accordi intergovernativi.
La Turchia, infine, potrebbe puntare sulla numerosa comunità dei “Koroglu” (i libici di discendenza turca) che conterrebbe ben1,4 milioni di individui, concentrati soprattutto a Misurata, la “città-Stato” situata circa 180 chilometri a est di Tripoli: praticamente meno un libico su quattro in Libia ha origini turche, secondo quanto riferito da Zekeriya Suleyman Zubi, capo dell’Associazione libica “Koroglu”, al portale web “Al Monitor”. Perfino il premier Fayez al Sarraj avrebbe origini turche, “ma lui è troppo debole”, spiega Zubi. Secondo il capo dei Koroglu, l’organizzazione mira a rilanciare l’eredità ottomana nel Nord Africa e vorrebbe che la Turchia riconoscesse la cittadinanza turca; cambiasse la prospettiva degli ottomani nei testi scolastici libici; sostenesse l’apertura di scuole primarie, corsi di lingua turca e stazioni radio per i turchi libici; restaurasse i monumenti ottomani in Libia; costruisse un grande luogo di culto simile alla famosa Moschea blu di Istanbul.