Da almeno otto anni, la Libia è nel caos. Instabile e diviso politicamente, martoriato da ben due guerre civili, il Paese è amministrato da due governi distinti, quello di Tripoli, che fa capo a Fayez Al Sarraj – sostenuto dalle Nazioni Unite – e quello di Tobruk, sotto il generale Khalifa Haftar.

La situazione è precipitata lo scorso aprile, quando le forze del generale Haftar hanno avviato una campagna di conquista e riunificazione del Paese, marciando su Tripoli. Dopo alcune vittorie lampo, tuttavia, l’avanzata di Haftar si arena improvvisamente. Senza il sostegno sperato delle tribù della Tripolitania e di fronte a un’inaspettata alleanza tra i gruppi armati a favore di Al Sarraj, all’inizio di luglio l’uomo forte del governo di Tobruk è stato costretto ad arretrare. La sua sconfitta inizia proprio da Gharyan, la cittadina della Tripolitania da cui era partita l’offensiva.

Le fazioni in gioco però non si arrendono e la guerra lampo si trasforma presto in una di logoramento. In soli quattro mesi il bilancio sale a più di mille vittime – tra le quali almeno 106 civili –, mentre migliaia di persone abbandonano le loro case, cercando la salvezza fuori dai confini della Libia.

Gli scontri sono continui, ma la partita è in stallo: nessuno avanza e nessuno arretra.

Dallo stallo alla guerra aerea

Con le prime linee bloccate, la battaglia per il controllo della Libia esplode in un nuovo teatro: lo spazio aereo. “L’impossibilità di ottenere progressi militari sta costringendo entrambe le parti a ripensare alle tattiche militari utilizzate”, ha dichiarato Khaled Al-Montasser, professore dell’Università di Tripoli.

Lo scontro si sposta allora nei cieli libici dai quali le forze di Haftar e Al Sarraj riescono a centrare “basi arretrate, centri di rifornimento e postazioni delle truppe nemiche” e a coprire grandi distanze, ampliando la portata geografica dello scontro.

Nelle ultime settimane, si sono intensificati i raid aerei contro importanti asset nazionali. Martedì scorso, alcuni missili hanno centrato l’aeroporto di Mitiga, l’unico attivo nel Paese, causando la sospensione dei voli e la chiusura della struttura, per la terza volta dall’inizio di luglio.

Pochi giorni fa, invece, l’esercito di Haftar ha condotto raid su almeno 10 obiettivi – tra cui l’accademia militare di Misurata e un ospedale da campo vicino a Tripoli – in risposta all’attacco aereo di Al Sarraj contro la base aerea strategica di Al-Jufra.

L’ingerenza straniera

“Entrambe le parti stanno ignorando la richiesta di una tregua avanzata dalle Nazioni Unite; al contrario, stanno intensificando la campagna aera, effettuando attacchi di precisione grazie a velivoli da guerra e droni armati”, ha dichiarato Ghassan Salamé, rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per la Libia.

Salamé è convinto che i droni armati, i cannoni Sr, i mortai e i lanciarazzi impiegati sul campo di battaglia libico siano un chiaro segno dell’aumento dell’ingerenza straniera nella guerra civile. La Libia “è diventata un terreno di prova di nuove tecnologie militari e un luogo in cui riciclare le vecchie armi”.

Già con la prima guerra civile, numerosi Paesi avevano iniziato a prendere parte al conflitto in modo diretto, sfruttando il vacuum politico lasciato dal colonnello Muammar Gheddafi. Oggi, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti sono schierati a fianco del generale Haftar, mentre Turchia e Qatar sono a favore di Al Sarraj.

L’importazione di armi sarebbe andata di pari passo all’arrivo di personale straniero, in particolare piloti, addestratori e tecnici. “Oggi più che mai” – continua Salamé – “i libici stanno combattendo la guerra di altri Paesi che sembrano non aver alcuna intenzione di fermarsi, fino a quando lo Stato non sarà completamente distrutto, soltanto per realizzare il proprio tornaconto”.

Le armi nelle mani dei terroristi

A complicare ulteriormente il quadro, l’ombra del terrorismo. All’inizio di luglio, Amaq – l’agenzia affiliata allo Stato islamico – ha annunciato la rinascita dell’organizzazione terroristica nel sud della Libia.

La presenza dei jihadisti nel Paese, già di per sé molto preoccupante, può diventare ancora più grave se si considera che molte delle armi portate in Libia dalle potenze straniere coinvolte nel conflitto potrebbero già essere in possesso dell’Isis. “Ci sono prove che le armi consegnate dai sostenitori stranieri stanno cadendo nelle mani del gruppo terroristico o vengono vendute ai jihadisti” – ha denunciato Salamé – “Questa sì che è la ricetta per un disastro”.