Guerra /

L’esercito francese ha comunicato la morte di alcuni suoi soldati impegnati in Mali nell’ambito dell’operazione Barkhane.

L’incidente

Stando alle prime ricostruzioni l’incidente è avvenuto lunedì 25, poco prima delle ore venti. Due elicotteri dell’esercito francese si sono scontrati a bassa quota, poco prima che fosse lanciata un’operazione contro un gruppo di jihadisti. I mezzi coinvolti sono un elicottero Cougar, di supporto e pronto a intervenire per un’eventuale estrazione rapida, e un Tiger, un mezzo d’attacco. Nell’impatto sono morti sei ufficiali, sei sottoufficiali e un sergente. Non ci sono superstiti. Per la Francia si tratta del più grave incidente da quando è presente in Mali, 2013, e del più alto numero di perdite dal 1983. Immediato il messaggio di cordoglio dell’Eliseo.
L’unico dettaglio fornito riguardo al luogo dell’incidente, è che le truppe si trovavano nella regione di Liptako. Questa regione, tra le più colpite dal proliferare dei gruppi jihadisti nell’area, si trova a cavallo tra Mali, Niger e Burkina Faso e nelle ultime settimane è stata al centro di violenti scontri che hanno coinvolto le forze armate maliane e i militari delle Nazioni Unite.

Lo scontro, a quanto pare, è avvenuto per un errore dei piloti, sembra quindi da escludere che sia stato sferrato un attacco diretto. I jihadisti, verso cui si stava dirigendo il contingente francese, potrebbero far parte dello Stato Islamico del Grande Sahara oppure di uno dei molti gruppi qaedisti presenti nella regione, uniti da Marzo 2017 sotto la sigla Jnim, Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin.

La vuota militarizzazione del Sahel

La Francia è presente nel Sahel dal 2013, quando fu lanciata l’operazione Serval per contrastare un imminente colpo di Stato in Mali. In poco più di 48 ore la Francia schiera i suoi uomini a protezione di Bamako e i rivoltosi sono respinti, ma per nulla sconfitti. In seguito a quest’operazione emergono tensioni e interessi contrastanti dei miliziani: jihadisti di diversa nazionalità ed etnia, Tuareg, ex soldati. Il fronte, fino a quel momento compatto, si frammenta in una moltitudine di organizzazioni separate che saranno alla base della proliferazione dei gruppi armati nell’area.

Nel 2014 la Francia rinnova la propria presenza con la missione Barkhane, tuttora attiva, che consta di 4500 soldati. Per il 2020 è previsto il lancio dell’operazione, a guida francese, Takuba, cui parteciperanno anche Estonia e Danimarca. Negli ultimi anni il Sahel ha conosciuto una serrata militarizzazione, di cui la Francia è stata senz’altro precursore. Alla presenza transalpina si è presto aggiunta la missione delle nazioni unite, Minusma, le missioni di peacekeeping e training dell’Unione europea e la joint task force G5 del Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Chad), per un numero complessivo di truppe schierate che va oltre le 20mila unità. Secondo alcuni analisti, una presenza così massiccia di forze armate costituisce un push factor nella nascita di gruppi armati, incrementando il livello e la frequenza degli scontri armati. Ufficialmente l’obiettivo di queste migliaia di soldati è contrastare la diffusione del jihadismo, delle milizie di autodifesa, limitando lo scontro interetnico.

I reali interessi sono ben altri. Il Sahel è una regione ricca di risorse minerarie soprattutto uranio, da cui dipendono le centrali nucleari francesi, che già controllano l’estrazione e l’esportazione dell’uranio in Niger, causando enormi danni ambientali. Recentemente, a concorrere con la Francia per queste risorse, è giunta anche la Cina, destabilizzando ulteriormente l’area. Le tre operazioni dell’Unione europea hanno, invece, lo scopo di controllare i flussi migratori tramite l’empowerment delle forze di sicurezza nigerine e maliane.

Un dispiegamento di questa portata avrebbe dovuto porre un freno alle violenze nella regione, ma si è rivelato del tutto inefficace. I numerosi gruppi armati, jihadisti e non, sono nati come risposta a tensioni sociali, vuoti politici, difficoltà economiche, non per ragioni ideologiche o religiose. Inoltre bisogna considerare i devastanti effetti che il cambiamento climatico sta avendo sulla regione. Il deserto avanza sempre più rapidamente e le risorse, in termini di terra e acqua, scarseggiano. In questo contesto si sono inseriti gruppi armati non statali, acuendo le tensioni interetniche. Per riportare stabilità e pace sociale si dovrebbe agire sulle radici del problema, grazie a progetti di cooperazione allo sviluppo, piuttosto che continuare a inviare migliaia di soldati. La miopia, come scelta, e l’avidità, come motore, degli attori in gioco hanno favorito una crisi che richiederà tempo e ben altre politiche per essere risolta.

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