L’ultimo rapporto del Commissario Generale Speciale per la Ricostruzione dell’Afghanistan, John F. Sopko, dipinge un quadro piuttosto impietoso dei 20 anni di impegno americano nel paese. Gli Usa, si legge nel rapporto, non hanno saputo sviluppare ed implementare una strategia coerente; hanno costantemente sottostimato il tempo necessario per raggiungere l’end state (l’obiettivo della missione) che si erano preposti; non hanno guardato alla sostenibilità dei progetti di ricostruzione né hanno saputo sviluppare pratiche civili e militari adatte al contesto, minando così l’intero sforzo; non hanno saputo creare le condizioni per il cosiddetto Sase (Safe and Secure Environment) necessario allo sforzo ricostruttivo; non hanno saputo comprendere il contesto afghano e nemmeno hanno saputo monitorare e valutare correttamente l’efficacia delle iniziative intraprese.
Il rapporto però non dovrebbe sorprendere: già il 10 settembre 2009 in una lettera di dimissioni successivamente pubblicata sul Washington Post, un funzionario americano, Matthew Hoh, dichiarava sfiduciato la sua incomprensione degli obiettivi della presenza americana in Afghanistan. Come l’Urss prima di noi, sosteneva, continuiamo a supportare e puntellare uno stato fallito, incoraggiando un’ideologia e un sistema di governo sconosciuto e osteggiato dalla popolazione. Il precipitoso ritiro delle truppe americane il 31 agosto di 12 anni dopo non fa che confermare l’accuratezza delle parole di Hoh. Se è doveroso riflettere sugli errori commessi durante gli scorsi 20 anni, è sicuramente più difficile immaginare quale sarà il futuro dell’Afghanistan ormai in mano ai talebani.
Ragionando in termini di plausibilità è però possibile immaginare, alla luce delle informazioni disponibili, tre scenari per l’Afghanistan di domani. Ben Berry, senior analyst per l’Istituto Internazionale di Studi Strategici (Iiss), il 3 agosto 2021 proponeva tre possibilità per l’Afghanistan una volta ritirate le truppe americane: una vittoria (difensiva) del governo afghano contro i talebani, un accordo di pace fra governo e talebani oppure una guerra civile. A poco più di un mese di distanza è ormai possibile scartare due scenari, data la proclamazione mercoledì 8 settembre scorso del nuovo governo talebano ad interim. Alla luce dei recenti avvenimenti sorge quindi spontaneo domandarsi, aggiornando le previsioni di Berry, quale futuro attende l’Afghanistan.
Un Afghanistan multilaterale
La prima possibilità è che gli Stati Uniti e i loro alleati continuino a mantenere dei rapporti con il governo talebano. Se è poco probabile che Usa, Francia e Uk riconoscano il nuovo governo è però plausibile che mantengano delle relazioni attraverso canali formali e informali in chiave essenzialmente anti-terroristica. La promessa dei talebani di distanziarsi da Al Qaeda fatta durante i negoziati di Doha a Usa, Cina, Russia e Pakistan sembra non essere stata mantenuta data la nomina di Haqqani a ministro degli interni del nuovo governo. Tuttavia, vista la dipendenza dell’Afghanistan dagli aiuti internazionali e la crisi economica che affligge il paese, è possibile che i partner della Nato decidano di alternare bastone (congelamento degli asset finanziari dei talebani, sanzioni economiche o perfino raid aerei) e carota (aiuti internazionali, fondi per la ricostruzione ecc) al fine di scongiurare eventuali minacce terroristiche.
Se è vero che l’intelligence dei paesi Nato ormai opera “alla cieca”, questo permetterebbe comunque di monitorare non tanto la presenza quanto più la concentrazione e l’attività dei gruppi terroristici transazionali che hanno fatto e faranno dell’Afghanistan la loro dimora. In un simile contesto sarebbe plausibile aspettarsi, affianco alla tradizionale presenza dei paesi Nato, una crescente influenza della Cina, della Russia e dell’Iran. Questi ultimi infatti condividono le preoccupazioni di Washington, Londra e Parigi e vorrebbero vedere un Afghanistan stabile e “ordinato” che non rappresenti una minaccia per la loro sicurezza interna. Si andrebbe così a delineare uno scenario multilaterale dove agli interessi dell’Occidente si affiancherebbero quelli dei vicini regionali (Cina, Pakistan, Iran, India e Russia).
La chiave di volta per la convivenza di interessi così disparati sarebbe proprio la stabilità del paese: se la Russia teme per la sicurezza delle sue frontiere, l’Iran vuole evitare una crisi di rifugiati e la presenza dell’Isis vicino ai suoi confini. Il Pakistan vorrebbe che il ramo afghano dei talebani prendesse le distanze da quello pakistano che rischia di mettere a repentaglio la stabilità delle sue zone tribali. La Cina, sebbene abbia già preso i necessari accorgimenti per garantire la sicurezza della sua pur ridotta frontiera con l’Afghanistan, avrebbe interesse ad includere Kabul nella sua sfera di influenza economica senza che venga minacciata la stabilità della provincia dello Xinjiang a maggioranza uigura.
In questo scenario l’elemento di criticità è rappresentato proprio dalle scelte del nuovo governo talebano: gli alleati Nato, ad eccezione forse della Turchia, oltre ad ammettere il fallimento di un’operazione durata 20 anni, non senza qualche difficoltà dovrebbero già accettare l’imposizione del velo integrale, le limitazioni imposte all’accesso delle donne all’istruzione e alla partecipazione alla vita pubblica e la mancanza di democrazia del nuovo sistema di governo. Se oltre a queste – pressoché inevitabili – decisioni, dovessero aggiungersi nuovi smacchi all’Occidente difficilmente questo quadro potrebbe verificarsi. Un segnale positivo viene dalla postposizione della cerimonia di insediamento del nuovo governo talebano prevista non a caso per l’11 settembre, ma questo potrebbe non bastare se si inasprisse ulteriormente la posizione dei talebani sulle donne o se aumentasse ulteriormente il livello di violenza e repressione della popolazione.
Un Afghanistan senza l’Occidente
Una seconda possibilità è che l’Occidente, e in particolare gli Usa, rinuncino a qualsiasi rapporto con il nuovo governo talebano. In questo scenario non solo il nuovo governo non verrebbe riconosciuto dalla comunità internazionale ma verrebbero anche sospesi gli aiuti internazionali e inasprite le sanzioni. Dal momento che un nuovo intervento militare è impensabile, l’Occidente lascerebbe dietro di sé un vuoto importante che potrebbe essere colmato dai vicini regionali. Cina, Russia, Pakistan e Turchia (i soli paesi ad aver mantenuto le loro rappresentanze diplomatiche in Afghanistan) potrebbero riconoscere bilateralmente il nuovo governo. Questi paesi, infatti, non sembrano curarsi delle decisioni di politica interna del nuovo governo talebano, purché non venga minacciata la loro sicurezza interna.
La Cina dal 2002 al 2012 aveva ostentato il proprio disinteresse per il teatro afghano comportandosi come sostanziale free rider nella guerra globale contro il terrore. Questo atteggiamento ha permesso a Pechino di eliminare i campi di addestramento dei separatisti Uiguri nelle aree controllate dai talebani senza affrontare i costi della guerra al terrore, ma dal 2012 gli obiettivi strategici cinesi sono cambiati. Messi in sicurezza i suoi confini, la Cina da ormai lungo tempo si preparava ad un ritiro dell’Occidente e degli americani, intessendo nuove relazioni economiche, politiche e militari con l’Afghanistan. Il paese è infatti divenuto osservatore nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (Sco) ed è direttamente coinvolto, sebbene non formalmente, dalla Belt and Road Intitiative (Bri) cinese.
L’Afghanistan inoltre potrebbe divenire una parte integrante del nuovo corridoio multimodale trans-himalayano assieme a Pakistan e Nepal. Se fino ad oggi la Cina aveva mantenuto un atteggiamento ambivalente nei confronti del vecchio governo di Kabul sostenuto dagli Usa, appoggiandolo nominalmente ma coltivando parallelamente i rapporti con i talebani, ora che questi sono al potere il processo di inclusione dell’Afghanistan nella sfera di influenza cinese potrebbe subire un’ulteriore accelerazione. In questo scenario potrebbe avvenire una convergenza di interessi fra Pechino, Tehran e Islamabad che estrometterebbe l’India e farebbe dell’Afghanistan il nodo chiave del collegamento fra Asia centrale e Medio Oriente.
Sul versante militare Russia e Turchia potrebbero ottenere dei contratti per la fornitura di armi al nuovo regime oltre ad un ruolo di primo piano nella ricostruzione del paese. Sul versante interno il riconoscimento dei vicini regionali permetterebbe invece ai talebani di strutturarsi definitivamente come un partito politico, allontanandosi progressivamente dall’immagine di organizzazione terroristica. In questo secondo scenario l’Occidente latu senso perderebbe la possibilità di condizionare l’operato dei talebani e il futuro del paese, privandosi di una delle poche leve di cui dispone ad oggi, ossia quella degli aiuti internazionali.
Uno scontro fra proxy
Il terzo scenario è indiscutibilmente il più temuto dagli attori coinvolti. Se in queste prime, cruciali settimane il nuovo governo talebano non si rivelasse in grado di tenere il paese unito, l’Afghanistan potrebbe sprofondare in una nuova spirale di instabilità e guerra civile. Oltre al tradizionale rivale dei talebani, l’Alleanza del Nord, potrebbero proliferare numerosi gruppi armati locali e transnazionali, fra i quali l’ISIS-K, portando ad un rapido deterioramento della sicurezza. In un contesto simile le numerose anime che compongono la galassia dei talebani potrebbero frazionarsi ed entrare in aperta competizione fra loro.
Se tutti gli attori internazionali in gioco, dagli Usa alla Cina passando per l’Iran e il Pakistan hanno interesse nella stabilità dell’Afghanistan, in caso di una nuova guerra civile l’Afghanistan rischierebbe di divenire un terreno di competizione fra interessi regionali divergenti, rendendo di fatto una soluzione negoziale impraticabile. Una guerra fra proxy, combinata alla crisi economica attuale, probabilmente causerebbe una crescita esponenziale del numero di rifugiati generando una nuova e più dura crisi umanitaria. La pressione migratoria sui paesi vicini, in particolare Iran e Pakistan aumenterebbe, causando forti tensioni interne e inter-etniche. Questo scenario combinerebbe quindi un aumentato rischio di minacce terroristiche a una sostanziale incapacità dei servizi di intelligence dei paesi coinvolti di prevedere e anticipare eventuali rischi alla sicurezza nazionale.