Le isole artificiali che la Cina ha costruito nel Mar Cinese Meridionale sono vulnerabili agli attacchi ed è improbabile che contribuiscano molto a qualsiasi azione di combattimento in caso di conflitto. Questa lapidaria sentenza non arriva da un think tank statunitense o da un istituto di analisi strategica occidentale, bensì è quanto si legge in un articolo comparso nell’ultima edizione di Naval and Merchant Ships, una rivista mensile con sede a Pechino molto vicina agli ambienti governativi e militari.
La Cina, a partire da 2015, ha cominciato una progressiva e costante occupazione e militarizzazione degli atolli del Mar Cinese Meridionale per rivendicare la sovranità su quel bacino marino condiviso con Vietnam, Filippine, Malesia e Brunei. La diatriba, che sostanzialmente vede la Cina da una parte e gli altri Paesi rivieraschi da quella opposta, è ben nota ed è stata ampiamente dibattuta da queste colonne: Pechino rivendica quel mare in forza della suddivisione effettuata dal Kuomintang negli anni ’40 del secolo scorso, la Nine Dash Line (Linea dei Nove Tratti) tracciata dal geografo Yang Huairen.
La critica, che arriva da Naval and Merchant Ships, e quindi, se non dagli Stati maggiori del Pla, l’Esercito di Liberazione Popolare, da alcuni esponenti di esso, ha evidenziato i punti deboli delle isole, artificiali e non, in quel braccio di mare conteso individuando quattro passaggi fondamentali: la distanza dalla terraferma, le loro piccole dimensioni, la capacità limitata delle loro piste di atterraggio e le molteplici direzioni dalle quali potrebbero essere attaccate in caso di conflitto aperto.
Come possiamo leggere sul South China Moring Post che riporta stralci dell’articolo della pubblicazione edita dalla China State Shipbuilding Corporation, che costruisce navi per la Marina Cinese, il problema delle isole è che non hanno ancora raggiunto capacità offensive significative.
“Queste isole artificiali hanno vantaggi unici nel salvaguardare la sovranità cinese e nel mantenere una presenza militare nelle profondità dell’oceano, ma hanno svantaggi naturali nell’autodifesa” viene detto nella rivista. Le isole, secondo l’autore della critica, sarebbero lontane dalla Cina continentale e non avendo una “catena” di approvvigionamento fissa sarebbe difficile fornire supporto in caso di attacco. “Prendiamo l’esempio del Fiery Cross Reef. Adesso ha una pista, ma dista mille chilometri (600 miglia) dalla città di Sanya, nella provincia di Hainan” il che significa che le navi di supporto più veloci della Cina avrebbero bisogno di più di 20 ore per raggiungere l’isola. Critica inoppugnabile, ma Fieri Cross Reef, che è una delle isole più meridionali nel Mar Cinese Meridionale, ha alle spalle altri avamposti come Mischief Reef, Subi Reef (tutti nelle Spratly) sino a Woody Island nelle Paracelso più a nord, molto più vicine all’isola di Hainan, facente parte della Cina continentale. La tattica quindi potrebbe essere quella di un “salto della rana” tra i vari isolotti per rifornire gli atolli più lontani, ma Pechino, in questa fase storica, teme la distanza più di ogni altra cosa in quanto è conscia che la capacità di sea (e air) control della Marina statunitense è ancora preponderante nonostante l’installazione delle sue bolle Anti-Access/Area Denial (A2/AD) nell’area.
La critica prosegue, infatti, affermando che le isole sono troppo lontane per schierare efficacemente il caccia J-16, il velivolo multiruolo più avanzato della Cina. I caccia non potrebbero pattugliare l’area con efficacia a causa della distanza e potrebbero essere facilmente intercettati o attaccati dalle navi di superficie. Inoltre la maggior parte delle isole ha solo una pista di decollo e non ha spazio sufficiente per le strutture in grado di operare più di un aereo alla volta.
In caso di conflitto, questo significa che un aereo che scarica o fa rifornimento dovrebbe rimanere sulla pista, impedendo ad altri aerei di utilizzarla. Viene anche fatto notare che le piste di atterraggio sono molto vicine all’oceano e questo potrebbe esporle a danni in caso di forti mareggiate.
Le isole artificiali sarebbero anche troppo piccole per sopravvivere a gravi attacchi e non fornirebbero ripari naturali al personale, inoltre si trovano a breve distanza dai Paesi confinanti, ed avversari della Cina (come le Filippine), che quindi potrebbero colpirle con facilità.
Una serie di critiche che, oltre ad aver dimostrato il timore per la potenza aeronavale statunitense che alberga ancora nelle menti di alcuni esponenti delle Pla (ma non in tutti), servirà a scuotere la direzione politica sulla via della continuazione della militarizzazione delle isole. Militarizzazione avvenuta “in sordina” e mai ammessa da Pechino, che dapprima ha negato la presenza di installazioni militari negli arcipelaghi, poi ha ammesso la pura natura difensiva delle stesse: un mero escamotage dialettico data la natura di certi armamenti dispiegati (come i bombardieri o gli stessi caccia) che possono essere sia offensivi che difensivi.
Un pregio ulteriore di questo articolo, è quello di aver per la prima volta cambiato proprio questa dialettica: Pechino ammette che le isole contese e da lei rivendicate sono parte integrante del suo strumento militare, e che, anche a discapito di certe criticità, sono fondamentali per “salvaguardare la sovranità cinese” e per “mantenere una presenza militare nelle profondità dell’oceano”. Del resto, dopo cinque anni e dopo i progressi effettuati in questo lasso di tempo, continuare a negare la presenza militare nelle isole occupate (e alcune create dal nulla), sarebbe perfettamente inutile, anzi, diventerebbe anche controproducente per la finalità di Pechino che è quella di porre la comunità internazionale davanti al fatto compiuto e quindi ottenerne il riconoscimento.