È dall’alba dei tempi che l’umanità cova due sogni: spazio e immortalità. Il primo, la “prossima frontiera” per antonomasia, è stato conquistato nel corso della guerra fredda ed è, oggi, al centro di una nuova competizione tra grandi potenze in cui il focus è stato spostato dalla Luna a Marte e dalle passeggiate estemporanee allo stabilimento di colonie umane durevoli.

La seconda (e ultima) frontiera è ancora irraggiungibile, sebbene gli studi sulla longevità premettano e promettano di rendere possibile (e vivibile) la “quarta età”, ma il progresso scientifico sta avanzando in direzione di un fenomeno profondamente legato al tema dell’immortalità, se intesa come divinizzazione dell’essere umano, ovvero il transumanesimo.

Il transumanesimo è un movimento culturale e scientifico che propugna la ricerca nel campo del potenziamento umano e anela alla costruzione di un homo novus a mezzo di farmaci, sieri, droghe e terapie avanguardistiche che siano in grado di aumentare a tempo indefinito la prestanza fisica e le abilità cognitivo-intellettive. Antietico e potenzialmente catastrofico per alcuni, ineluttabile e auspicabile per altri, il transumanesimo sta lentamente ma inesorabilmente facendo breccia negli ambienti accademici – non soltanto dell’Occidente– e ha trovato terreno fertile (e applicazione) in un settore specifico: le forze armate.

Transumanesimo, ultima frontiera?

In data 10 febbraio il Gatestone Institute, un noto think tank statunitense di stampo conservatore, ha pubblicato un approfondimento dal titolo suggestivo: “La Cina sta creando una nuova razza superiore” (China Is Creating a New Master Race).

La veridicità e la qualità del contenuto potrebbero essere attaccate ricorrendo a tattiche basate sull’argumentum ad hominem, ma la tecnica dilatoria non reggerebbe alla prova del confronto perché l’autore ha semplicemente, ma egregiamente, condensato le ultime notizie – di pubblico dominio – provenienti dall’applicazione militare del transumanesimo, scegliendo di focalizzarsi sugli studi che stanno (o starebbero) venendo condotti in Cina.

Come riporta il Gatestone Institute, una delle ragioni per cui la “Cina è [divenuta] la minaccia numero uno alla sicurezza nazionale [degli Stati Uniti]” è che starebbe “conducendo esperimenti su membri dell’Esercito di Liberazione Popolare (ELP) nella speranza di sviluppare soldati con capacità biologicamente avanzate”. Secondo John Ratcliffe, ex direttore dell’Intelligence Nazionale, i servizi segreti statunitensi hanno raccolto evidenze dimostranti l’esistenza di un piano per il conseguimento della “dominanza biologica”.

A supporto della tesi disturbante, l’autore cita alcuni eventi che, per quanto recenti, sono (volutamente?) passati in sordina, fra i quali gli esperimenti illegali del dottor He Jiankui di editing genomico su embrioni umani, le sperimentazioni del genetista Bing Su sull'”umanizzazione” delle scimmie a mezzo dell’inserimento del gene MCPH1 nel loro cervello (una ricordanza dei celebri tentativi novecenteschi di creare il cosiddetto “scimpanzuomo“) e le ricerche dell’Elp su “un nuovo concetto di biotecnologia” funzionale al miglioramento delle prestazioni dei soldati.

Non è dato sapere quali prove abbia raccolto l’intelligence statunitense sul presunto programma di dominanza biologica, ma Ratcliffe, che si presume le abbia visionate in qualità del suo (ex) ruolo, ha commentato a tal proposito che “Pechino non conosce limiti etici nella sua ricerca di potere”; dichiarazioni forti e che potrebbero essere indicative di una certa gravità.

Le accuse nei confronti della Cina non provengono soltanto dagli ambienti di intelligence, ma anche da quelli accademici. Il politologo Brandon Weichert, ad esempio, che segue da vicino le tematiche relative al potenziamento umano per fini militari, è del parere che “la Cina è guidata da un regime che crede nel perfezionamento dell’umanità e, grazie all’avvento della genetica moderna e della biotecnologia, i suoi pianificatori centrali hanno a disposizione il genoma umano da perfezionare in accordo con la loro agenda politica”.

Secondo Weichert, “gli scienziati cinesi sarebbero già sulla strada del doping genetico”, ovverosia sarebbero a buon punto nella costruzione “di generazioni future più intelligenti e più innovative”. Le dichiarazioni del politologo troverebbero un riscontro (parziale) nel fatto che He non era, e non è, un fumettistico scienziato pazzo: come lui – e prima di lui – dei ricercatori dell’università Sun Yat-sen di Guangzhou hanno condotto degli esperimenti genetici su embrioni umani nell’aprile 2015.

La Cina non è sola

La Cina non è l’unica potenza ossessionata da transumanesimo e potenziamento umano. Ricerche sulla costruzione di supersoldati, semidei progettati per uccidere e per pensare come delle macchine, sono state effettuate durante la Seconda guerra mondiale dalla Germania nazista (Josef Mengele) e dall’impero giapponese, e durante la guerra fredda da Unione Sovietica e Stati Uniti (progetto Stargate).

Il mondo è cambiato profondamente dagli anni ’30 ad oggi, ma la logica del super soldato modificato geneticamente, o a mezzo di droghe e sieri, sembra essere stata eternizzata e divenuta parte integrante del modus cogitandi delle grandi potenze. La Cina, invero, non è l’unico attore che sta (o starebbe) conducendo esperimenti e studi sull’applicazione militare delle teorie su transumanesimo e potenziamento umano.

Nel dicembre 2020, ad esempio, come ha scritto Paolo Mauri sulle nostre colonne, il comitato etico delle forze armate di Francia ha dato semaforo verde “all’utilizzo di trattamenti medici, protesi e impianti per migliorare le capacità fisiche, cognitive, percettive e psicologiche di un soldato […] e consentire la connettività con sistemi d’arma e altri soldati”. L’ultimo punto, spiegato nel dettaglio, comporterebbe “una sorta di integrazione uomo-macchina che trasformerebbe i militari in organismi bionici in grado di resistere alla fatica, al dolore, allo stress e di connettersi con altri assetti sul campo di battaglia in modo del tutto rivoluzionario, ovvero integrando trasmittenti e sensori nel corpo umano”.

Muta lo scenario, così come viene rifinita la terminologia in maniera tale da rendere il programma palatabile all’opinione pubblica (e soprattutto agli alleati della Nato), ma la sostanza è inalterata, poiché inalterabile: “La Francia deve mantenere la superiorità operativa delle sue forze armate in un contesto strategico impegnativo”, ovverosia sta ricercando la dominanza biologica.

L’arrivo dei cyber-assassini

I super soldati alla Capitan America verranno impiegati nei teatri di guerra, e per condurre operazioni ad alto rischio, con il doppio risultato di ridurre il tasso di mortalità in battaglia e di creare un club ristretto di iper-potenze che traggono la loro forza dal potenziamento umano applicato alla sfera militare. La storia insegna che la fantascienza di oggi è la scienza di domani, perciò l’argomento non dovrebbe suscitare eccessiva ilarità.

Il modo di fare e concepire la guerra verrà ulteriormente sconvolto da una rivoluzione epocale che sta lentamente germinando in ambito cibernetico. Le guerre di domani, invero, saranno combattute tanto dai supersoldati quanto dagli assassini cibernetici, ovvero da hacker in grado di uccidere da remoto, attraverso un computer o un cellulare.

Le guerre cibernetiche potrebbero iniziare a mietere vittime perché, come ha rammentato di recente la Rand Corporation, “ogni dispositivo può essere hackerato, incluso uno [che si trova] all’interno del corpo umano”. Da questo ragionamento, tanto ovvio quanto sottovalutato, consegue la necessità di “pensare alle implicazioni su riservatezza e sicurezza dei dispositivi che vivono con noi”.

Scritto e rielaborato in altri termini, il passaggio di cui sopra significa, molto semplicemente, che, mentre gli eserciti cibernetici degli anni 2010 hanno colpito i loro nemici attaccandone le infrastrutture strategiche, rubando dati sensibili e iniettando virus nei sistemi operativi, nel prossimo futuro di hackeraggio si potrebbe morire – e si morirà.

Dal Canada agli Stati Uniti, la Rand Corporation ha appurato che sono già in corso – e stanno generando frutti – le ricerche su come utilizzare, o meglio “armare”, l’internet delle cose e l’internet del corpo a detrimento degli esseri umani. In Ontario, ad esempio, la ricercatrice Tamara Banbury sta guidando un  “movimento di innovatori e amanti del brivido che tenta di hackerare il corpo umano con la tecnologia”. Agli esperimenti partecipa la stessa Banbury, all’interno delle cui mani si trovano due microchip sottocutanei in grado “di contenere password, [documenti] identificativi e persino biglietti ferroviari elettronici” e che i suoi colleghi stanno provando a manipolare.

Sebbene gli studi sulla manipolazione dell’internet del corpo siano ancora allo stadio preliminare, si possono già trarre delle conclusioni alla luce dei risultati conseguiti: hackeraggi potenzialmente letali di pacemaker, autovetture intelligenti e macchinari ospedalieri sono realisticamente possibili perché “un dispositivo ha bisogno di trasmettere informazioni attraverso la rete, se stesso o un altro dispositivo come un cellulare” ed è già dimostrato da alcuni ricercatori che si può “hackerare una pompa di insulina, aumentando la possibilità di poter somministrare una dose fatale”.

In sintesi, il progresso tecnologico premette e promette, in un futuro non troppo remoto, di spianare la strada ai delitti perfetti; delitti eseguiti a distanza, da casa, o meglio da dietro uno schermo. Chiunque potrebbe diventare un bersaglio, ed una vittima, degli hacker assassini: un politico il cui cuore malandato è sostenuto da un pacemaker, uno scomodo giornalista investigativo che acquistato un’autovettura autonoma, un magnate che ha ornato la propria abitazione di dispositivi intelligenti, o un capo di Stato diabetico che ripone fiducia nella propria pompa di insulina.





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