Allo scoppio del conflitto in Ucraina, più di qualcuno in Occidente aveva sperato in Sergej Lavrov. La fama da boomer cosmopolita, perennemente in grisaglia, ha accompagnato tutta la sua carriera da diplomatico, dagli anni delle Nazioni Unite sino al raggiungimento del dicastero degli Esteri sotto Vladimir Putin. In molti, negli ultimi dieci anni ne hanno lodato l’eleganza, quell’essere al passo con i tempi, l’arguzia -e spesso anche la simpatia- soprattutto in virtù della sua abitudine a trattare con il resto del mondo, dallo Sri Lanka agli Stati Uniti. In tanti lo hanno paragonato ad un Gromyko dei tempi moderni, “con i suoi abiti italiani e il “niet” compulsivo”, come ama ricordare Davi Kramer, sottosegretario con George W. Bush. Ma nel diorama della battaglia tra Mosca e Kiev, anche Lavrov finisce sempre più sotto l’effetto progressivo di quella parabola di virulenza verbale che ha rapito i suoi pari, dimentico di quella cinica eleganza che più volte ha messo nell’ombra perfino lo zar Vladimir.

Lo scoppio della guerra e gli ultimi barlumi di diplomazia

Il 14 febbraio scorso, dieci giorni prima dell’inizio della guerra, le agenzie di stampa internazionali battevano la notizia di un Lavrov che suggeriva al presidente Putin di proseguire lungo il percorso diplomatico nei suoi sforzi per ottenere garanzie di sicurezza dall’Occidente, mentre a Kiev si preparavano già le barricate. Appena una settimana dopo, il ministro degli Esteri russo metteva in dubbio che l’Ucraina avesse diritto alla sovranità, affermando che il governo di Kiev non rappresentava affatto le parti costitutive del Paese. Poi il conflitto esplode, e i protagonisti della linea dura diventano, oltre a Putin, i famigerati Shoigu e Gerasimov. Lavrov sembrava essere finito, come spesso è accaduto, a fare il funambolo tra gli eccessi del Cremlino e le esigenze del consesso internazionale. Silente a fasi alterne.

Ma nelle ultime settimane, proprio come è accaduto a Dmitrij Medvedev, Lavrov sembra aver adottato uno stile nuovo, più duro, più sprezzante. I prodromi di questa nuova linea sono apparsi ben chiari quando il ministro ha abbandonato la riunione del G20 lo scorso 8 luglio dopo aver detto ai suoi omologhi che l’invasione russa dell’Ucraina non era responsabile di una crisi globale e che le sanzioni progettate per isolare la Russia equivalevano a una dichiarazione di guerra.

Il cambio di rotta

Appena una settimana fa, poi, la palese inversione di tendenza: Mosca sta espandendo i suoi obiettivi militari in Ucraina e mira al controllo di sedici intere regioni meridionali. Quasi cinque mesi dopo che il Cremlino ha lanciato la sua invasione su vasta scala, Lavrov annuncia in un’intervista con RIA Novosti e RT che gli obiettivi militari della Russia ora vanno oltre le Repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk e includono aree in cui le forze russe hanno già raggiunto guadagni, comprese le regioni di Kherson e Zaporizhzhia e un “numero di altri territori”. Un annuncio di strategia ben diversa rispetto a quella che seguì i falliti colloqui di pace a Istanbul alla fine di marzo, quando Mosca aveva dichiarato che avrebbe ridimensionato i suoi obiettivi per concentrarsi sull’Ucraina orientale. “La geografia della battaglia è ora cambiata, ha aggiunto Lavrov. In questo progressivo rincaro della dose tornano i refrain putiniani della prima ora: la necessità di un cambio al vertice a Kiev, le accuse all’Occidente, reo di “affamare” il mondo intero scatenando una crisi alimentare globale, si torna a premere sull’idea che i “russi e gli ucraini continueranno a vivere insieme” in nome del perenne uso e abuso della storia di cui Mosca si nutre.

C’è poi il tour africano, preceduto da un lungo editoriale intriso di accuse e vittimismo vecchio stile ma, allo stesso tempo, un’“offensiva di fascino” come l’ha definita Le Monde. Di fronte a un continente minacciato dalla “crisi alimentare più grave” di questo decennio, la Russia sta cercando di rassicurare i suoi partner africani. “Gli esportatori di grano russi rispetteranno tutti gli obblighi”, ha insistito Lavrov sabato 23 luglio al Cairo, in Egitto, prima tappa del suo viaggio. Lo stesso giorno, l’esercito russo ha bombardato il porto ucraino di Odessa, nonostante l’accordo raggiunto il giorno prima tra Kiev, Mosca e la Turchia. E proprio come nella Guerra Fredda, Mosca sta cercando attraverso il proprio emissario di sfruttare la simpatia filo-russa di molti stati africani (soprattutto i 17 astenutisi a marzo alle Nazioni Unite) che si nascondono dietro quel noto non allineamento che ha sempre mascherato vari cerchiobottismi di interesse.

Il refrain terzomondista

E per marcare il concetto decide di scrivere una lettera per i giornali dei paesi africani e pubblicata dal ministero degli Esteri russo prima della sua partenza ove rispedisce al mittente le responsabilità imputate a Mosca. Ad Addis Abeba, ultima tappa del suo tour in Africa, rincara la dose: “Sì, la situazione in Ucraina ha un ulteriore effetto negativo sui mercati alimentari. Ma non per l’operazione speciale russa in Ucraina, quanto piuttosto per la reazione assolutamente inadeguata dell’Occidente che ha annunciato sanzioni e destabilizzato la disponibilità di cibo nei mercati”. Da qui, rispolvera la propaganda terzomondista di una certa branca del sovietismo vecchio stile: “Spetta a noi decidere se vogliamo un mondo in cui un Occidente, totalmente sottomesso agli Stati Uniti, creda di avere il diritto di decidere quando e come promuovere i propri interessi senza rispettare le norme internazionali”. E ancora: “L’Occidente ha creato un sistema basato su alcuni principi: economia di mercato, concorrenza leale, inviolabilità della proprietà privata, presunzione di innocenza. Tutti questi principi sono stati gettati nello scarico quando hanno fatto ciò che pensavano fosse necessario per punire la Russia”. Quindi l’avvertimento ai Paesi africani: “Non ho dubbi che, se necessario, non esiteranno a fare lo stesso con qualsiasi altro Paese che li infastidisca in un modo o nell’altro”.

Ed è proprio in Africa che Lavrov sembra affrontare un nuovo battesimo diplomatico. La durezza delle sue parole, l’equilibrismo tra il detto e il non detto hanno più di un destinatario: l’Occidente e gli Usa (in attesa della telefonata con Anthony Blinken), l’Africa nella quale duella con Emmanuel Macron (seppure a distanza) e il suo capo, al quale ora più che mai, sarà necessario mostrarsi fedele alla linea.

 

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