Nel cuore dell’Africa da anni si combatte una guerra terribile e crudelissima che però nessuno vuole vedere, nessuno vuole interrompere. È l’interminabile crisi che devasta da tempo la parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, il Nord e il Sud Kivu, un territorio ricchissimo di risorse minerarie – tra cui i preziosi giacimenti di oro, stagno e poi di litio, niobio e cobalto, le “terre rare” – ma impoverito, stremato, disperato.
Da una parte vi è un potere centrale congolese debole e sommamente corrotto, incapace di assicurare un minimo di sicurezza e di ordine nelle regioni dell’Est, dall’altra parte vi sono gli appetiti del Ruanda, un piccolo ma ambizioso stato guidato dal ferrigno presidente Paul Kagame. Il governo di Kigali ostiene in modo intermittente ma efficace i miliziani del M23, una formazione paramilitare tutsi – la stessa etnia al potere in Ruanda – che, dopo una precaria tregua, dal novembre 2021 ha ripreso i combattimenti contro le scassate forze armate di Kinshasa. Una guerra per procura con l’obiettivo, non dichiarato ma chiaro, sono ancora una volta le miniere da sfruttare direttamente, alimentando il commercio illecito, o da taglieggiare in loco o imponendo alle imprese salatissime “tasse” di passaggio. Insomma, tanti, tantissimi soldi che alimentano il conflitto e la corruzione.
Al solito a pagare il prezzo più alto sono le popolazioni civili. Lo scorso 20 ottobre, l’M23 ha lanciato una nuova offensiva contro l’esercito congolese conquistando un’importante porzione del territorio di Rutshuru e causando l’ennesimo sfollamento: circa cinquantamila persone in tutta fretta hanno abbandonato le proprie abitazioni per raggiungere la zona di Goma, il capoluogo della regione (aggiungendosi così ai duecentomila profughi che dall’inizio del 2022 sono fuggiti verso il Congo centrale). Un esodo interno punteggiato da massacri e violenze d’ogni sorta come successo il 29 novembre a Kishine, cittadina della provincia del Nord Kivu, dove i guerriglieri hanno massacrato 131 persone.
Pochi giorni fa il dottor Denis Mukwege, Premio Nobel per la Pace nel 2018, ha lanciato un appello perché il mondo, l’Occidente intervenga e si mobiliti come ha fatto in questi mesi per l’Ucraina. “Siamo aggrediti dal Ruanda. È ormai evidente. A giugno le Nazioni Unite hanno votato la risoluzione 2641 che impone l’embargo e le sanzioni agli stati che appoggiano movimenti terroristici nella regione dei Grandi Laghi, pochi giorni fa l’ambasciatore francese all’ONU ha definito i fatti di Kishine un orrore. Ma poi? Cos’è successo? Nulla. Sfortunatamente la comunità internazionale si commuove solo per l’Ucraina ma non per noi. Il nostro paese assomiglia a una gioielleria senza porte. Chiunque può massacrare gli innocenti, depredare le nostre ricchezze per poi venderle sul mercato internazionale. Intanto il mondo intero chiude gli occhi”.
Il debole governo del presidente congolese Félix Tshisekedi ha denunciato la “strategia permanente di interferenza” del Ruanda e il 30 ottobre ha espulso l’ambasciatore. Inoltre, considerata l’inerzia dell’Europa e il disinteresse degli Stati Uniti – il segretario di Stato Blinken si è limitato a richiamare il governo di Kigali a “rispettare l’integrità territoriale dei vicini”… – i congolesi hanno chiesto aiuto all’Angola, alla Tanzania e soprattutto al Kenya che ha incaricato l’ex presidente Uhuru Kenyatta di assumere le redini di una mediazione a nome della Est African Community, la comunità regionale di cui fanno parte il Ruanda e il Congo. A sostegno dell’iniziativa diplomatica Nairobi ha inviato il 12 novembre un contingente militare a Goma schierandosi a sua difesa della città. Un pesante avvertimento al M23 e ai suoi sponsor ruandesi: se non vi fermate una nuova guerra inter-africana è possibile, anzi probabile.
Rulli di tamburi e manovre diplomatiche lasciano però scettico Denis Mukwege. Per il Nobel: “Le atrocità in Congo continueranno in nome dell’economia, della globalizzazione. Qui ci sono il litio e il cobalto, minerali indispensabili per la transizione energetica ma a nessuno importa un commercio trasparente basato su giusti prezzi. Ci parlano continuamente di ‘vetture verdi’, di ‘economia verde’ ma in Congo, il colore è sempre rosso, il rosso del sangue versato ogni giorno”.