Pochi libri hanno esercitato un impatto dirompente sulla storia contemporanea quanto The Influence of Sea Power Upon History (1890), il saggio del viceammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan che influenzò in profondità la proiezione strategica di Washington, allora potenza in repentina ascesa, nel mondo. Da quanto Theodore Roosevelt assunse la presidenza degli Stati Uniti, le idee di Mahan sulla necessità di controllare i mari e i commerci oceanici per assicurarsi la superiorità globale e sulla previsione di un perenne scontro tra potenze marittime e terrestri, poi amplificata da Carl Schmitt, divennero una componente centrale delle geopolitica a stelle e strisce, la stella polare della sua azione nel mondo.
Trasformatisi in una vera e propria “isola al centro del mondo”, per usare l’azzeccata definizione che dà il nome a un omonimo saggio di Manlio Graziano, gli Stati Uniti nel Novecento hanno avuto nel dominio dei mari la principale assicurazione della propria primazia globale. Nel XXI secolo, tuttavia, i dividendi geopolitici di questo stato di cose vanno via via erodendosi: nel Mar Cinese Meridionale Pechino reclama un crescente spazio d’autonomia, il Mediterraneo è sempre più turbolento, l’Indo-Pacifico è diventato uno spazio interconnesso e di difficile gestione.
Agli Stati Uniti serve, necessariamente, un aggiornamento della propria dottrina navale: per sollecitare questo sviluppo l’ammiraglio James Stavridis, ex comandante delle forze Nato in Europa e attualmente presidente dello U.S. Naval Institute, ha recentemente pubblicato una risposta contemporanea al lavoro di Mahan, intitolata Sea Power: un saggio che si ripropone di fornire agli Stati Uniti una nuova visione aggiornata e globale, partendo tanto dalle prospettive storiche dei diversi mari e oceani del mondo quanto dalle necessità di Washington nelle dinamiche internazionali contemporanee.
“The Sea is one”: l’avvertimento di Stavridis
Già dall’introduzione del saggio Stavridis lascia intendere la linea di tendenza della sua analisi. Egli la intitola emblematicamente “The Sea is one” (“Il mare è uno solo”), ricordando la necessità, per gli Stati Uniti, di considerare come uno spazio interconnesso le grandi masse acquatiche del pianeta. “Il mare è uno solo”, scrive Stavridis, “come entità geopolitica, e continuerà ad esercitare un’enorme influenza nello svolgimento degli eventi globali”. Se interconnessi sono gli oceani, interconnesse sono anche le dinamiche che li riguardano, e questa è una cosa che l’America non tiene in dovuta considerazione, ammonisce Stavridis, da sempre fautore di uno smart power capace di combinare gli strumenti militari con i componenti economici, politici e culturali della potenza.
Secondo Stavridis, gli Stati Uniti vedono la loro indecisione strategica manifestarsi in maniera evidente nell’Oceano indiano, laddove il rinsaldamento dell’alleanza con l’India deve ancora essere completato e nelle alleanze coi Paesi del Golfo l’interesse nazionale non viene seguito in maniera abbastanza adeguata. Al tempo stesso, l’allontanamento di Washington dai consessi internazionali legati alle Nazioni Unite ha offerto alla Cina, secondo Stavridis, un mezzo per eroderne l’influenza.
Anche l’indecisione statunitense nell’Artico è ritenuta strategicamente penalizzante: proprio le rotte glaciali sono indicate da Stravidis come i mari del futuro, fondamentali sotto il profilo commerciale ed energetico. L’ammiraglio vede con l’allarme l’ascesa regionale della Russia, ritenuta la potenza che meglio ha capito le future implicazioni del controllo dell’Artico sulla geopolitica mondiale.
Stavridis invoca una nuova strategia navale
In conclusione al suo saggio, Stavridis cerca di dettare la strada su cui la marina statunitense dovrebbe incamminarsi per rinsaldare il suo ruolo globale, che dalla sfera militare ne abbraccia numerose altre. Gli Stati Uniti dovrebbero, in ultima istanza, farsi promotori della tutela del mare come global common (bene comune globale) e partire dal principio dell’interconnessione per far valere la resilienza strategica. Ovvero consolidare da un lato la capacità di azione della flotta, da rafforzare nella dotazione di portaerei e sottomarini, ma anche le sue competenze di monitoraggio ambientale e risposta ai disastri, dalle epidemie ai terremoti.
Inoltre, Washington dovrebbe farsi promotrice del rispetto della rule of law e del diritto marittimo internazionale negli spazi oceanici che vedono quest’ultimo sempre più calpestato. Il corollario economico di questa presa di posizione porterebbe gli Stati Uniti a fare del commercio uno strumento di rinsaldamento delle proprie posizioni strategiche.
Stavridis offre una visione scevra di condizionamenti politici di breve termine per rinsaldare un dominio funzionale al ruolo globale degli Stati Uniti. Non c’è né eccezionalismo americano né alcun richiamo a qualsivoglia “destino manifesto” nella sua analisi, ma bensì una pragmatica e realistica volontà di custodire un ruolo di primato relativo per gli Stati Uniti nel contesto di una geopolitica internazionale diventata, nonostante gli sviluppi attuali della politica americana, sempre più multilaterale. Proprio per la sua focalizzazione di lungo periodo e la sua concretezza, la visione dell’ammiraglio appare di gran lunga meglio congegnata ma, al tempo stesso meno realizzabile, dei voli pindarici dell’attuale amministrazione di Washington.