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Giovedì scorso il ministro della Difesa giapponese Nobuo Kishi ha affermato di accogliere con favore il piano del Regno Unito di inviare il gruppo d’attacco della portaerei Hms Queen Elizabeth nelle acque del Pacifico Occidentale quest’anno.

Durante una videoconferenza con il suo omologo britannico Ben Wallace, Kishi ha detto che il Giappone lavorerà a stretto contatto con Londra per l’invio del Carrier Strike Group (Csg) britannico. I due ministri hanno convenuto che sia Tokyo sia Londra si “opporranno fortemente” a qualsiasi tentativo unilaterale di cambiare lo status quo con la forza nel Mar Cinese Orientale e Meridionale.

Il riferimento, ancora una volta, è alla Cina e alla sua politica assertiva che sta sostenendo in modo aggressivo le rivendicazioni territoriali marittime in quegli specchi d’acqua sollevando tensioni tensioni internazionali che coinvolgono Tokyo, gli Stati Uniti e una serie di altri paesi asiatici che si affacciano su quei mari contesi. Oltre alla ben nota questione della Nine Dash Line nel Mar Cinese Meridionale, esiste un terreno di scontro diretto tra Tokyo e Pechino: la sovranità sulle isole Senkaku/Diaoyu, situate tra Taiwan e le Ryukyu. Questo piccolo arcipelago di origine vulcanica è attualmente sotto amministrazione giapponese, facente parte della Prefettura di Okinawa, ma la Cina ne rivendica la sovranità per supposte motivazioni storico/geografiche.

Negli ultimi anni la maggiore aggressività cinese, fomentata dall’espansione delle sue Forze Armate, ha causato qualche incidente con Tokyo che, sentendosi minacciata, è corsa ai ripari dando il via ad una importante riforma della sua Difesa che ha visto finanziamenti sempre più crescenti e soprattutto un cambio di postura strategica che farebbe pensare a un Giappone “più aggressivo”: il varo delle “portaerei” classe Izumo (formalmente cacciatorpediniere tuttoponte portaeromobili) dimostra, se non una postura aggressiva, sicuramente una più incentrata sul miglioramento dello strumento militare, considerato l’unico deterrente per cercare di porre un freno all’espansionismo cinese, così ben evidenziato dall’occupazione delle Isole Spratly nel Mar Cinese Meridionale.

Kishi e Wallace hanno affermato, quindi, la volontà di rafforzare una cooperazione per un Indo-Pacifico libero e aperto, e di voler lavorare per tenere colloqui “due più due” che coinvolgano anche i ministri degli Esteri dei loro rispettivi Paesi che si terranno il prima possibile.

Hanno anche ribadito che lavoreranno per cercare di raggiungere l’obiettivo di avere una Corea del Nord libera dalle armi di distruzione di massa e dai missili balistici in modo “completo, verificabile e irreversibile”, un’eventualità, questa, che sarà molto difficile possa verificarsi stanti gli attuali sviluppi. Pyongyang infatti non ha affatto abbandonato il suo programma missilistico, che proprio negli ultimi mesi ha sfornato due importanti novità: un nuovo missile intercontinentale pesante, visto durante la parata del 10 ottobre, ed un nuovo Slbm, mostrato per la prima volta al pubblico nella giornata del 14 gennaio. Visti i progressi nel campo missilistico è ragionevole supporre che ce ne siano stati anche in quello nucleare, ed i movimenti presso le installazioni atomiche del regime visti dalla ricognizione satellitare in un periodo di due anni sembrano confermarlo.

La notizia della crociera asiatica del gruppo da battaglia della Queen Elizabeth non è affatto una novità. A ottobre il commodoro Michael Utley, comandante del Csg della Queen Elizabeth, aveva affermato che la nave, l’anno prossimo, sarebbe salpata alla volta dell’Asia scortata da due cacciatorpediniere Type 45, due fregate di Type 23, un sottomarino nucleare, una nave petroliera della classe Tide e la nave da supporto logistico Fort Victoria, passando dal Mediterraneo, dal Golfo Persico e dall’Oceano Indiano.

Alcune voci circolate all’inizio di quest’anno affermavano che il Regno Unito ha anche considerato la possibilità di basare una delle sue due portaerei nella regione, ma la possibilità che questo accada viene considerata remota dagli analisti: le Forze Armate britanniche, e in particolare la Marina, mancano infatti delle risorse numeriche per far fronte ai vari impegni che le occupano intorno al globo in modo efficace contemporaneamente, e quindi si correrebbe il serio rischio di sparpagliare troppo le risorse a disposizione andando contro i principi di base della concentrazione della forza; inoltre la possibilità di basare permanentemente una delle portaerei nel Pacifico avrebbe costi enormi per quanto riguarda il personale, il gruppo di volo e la logistica.

Lo scorso sabato, il quotidiano giapponese Kyodo News ha riportato che la portaerei britannica si unirà ad unità navali di Stati Uniti e Giappone per esercitazioni al largo della catena delle Isole Nansei nel Giappone sud-occidentale.

Citando fonti anonime, viene inoltre affermato che il Regno Unito prevede di far svolgere i lavori di manutenzione sui suoi caccia F-35B che operano dalla Hms Queen Elizabeth da parte di personale della Mitsubishi Heavy Industries, l’industria aeronautica più importante del Giappone che ha in essere anche il programma per il nuovo caccia di quinta generazione nipponico.

L’operazione messa in piedi da Londra rientra nel concetto di “Global Britain”, sollevato per la prima volta dal primo ministro Theresa May in veste formale nell’ottobre 2016. In quell’occasione è stato specificato che il Regno Unito, dopo la Brexit, avrebbe dovuto tornare a essere una potenza globale aperta, inclusiva e rivolta verso l’esterno, per giocare un ruolo di primo piano sulla scena mondiale. Per raggiungere un tale obiettivo, “Global Britain” richiede il ripensamento delle relazioni del Regno Unito in tutto il mondo in modo tale da sostenere “il libero scambio e il sistema internazionale basato su regole” e utilizzando il suo soft power per proiettare i suoi valori e promuovere i suoi interessi. La “Global Britain” richiede anche che Londra si impegni maggiormente nella regione Asia-Pacifico, che probabilmente diventerà più importante per la Gran Bretagna negli anni a venire, evidentemente anche utilizzando il suo hard power per rafforzare i suoi interessi nell’area.