Se il delegato russo per le trattative con gli Stati Uniti, Sergey Rybakov, viene definito “Poker face” e ha ricordato la canzone di Lady Gaga per descrivere il volto del giocatore di poker come quello di chi negozia a livello internazionale, allora la sfida tra Russia e Stati Uniti può davvero essere considerata una partita a carte. Un grande gioco d’azzardo in cui gli avversario studiano le mosse dell’avversario, i segnali che manda, cosa fa con le sue carte, capire prima dell’altro qual è la strategia. E infine provare a vincere.
L’escalation
Le prima fiammate si ebbero con la “guerra ibrida” della Bielorussia. Accuse su cui Mosca ha sempre negato qualsiasi regia e che anzi, come spiegato da alcuni analisti, hanno complicato la politica russa nella regione. Poi è arrivata la volta dell’Ucraina, vero punto di svolta della crisi. Dopo l’invio delle forze russe lungo la frontiera ucraina, Vladimir Putin aveva lanciato alcuni segnali di distensione facendo rientrare nelle rispettive basi la maggior parte delle truppe. Ma una serie di esercitazioni militari, unite all’intervento in Kazakistan e a ulteriori mosse ai confini ucraini hanno confermato che la Difesa russa non si è affatto bloccata di fronte ai negoziati con l’Occidente. E mentre Mosca ha fatto intendere di volere garanzie “nero su bianco” sulla mancata adesione di Kiev alla Nato, da Washington hanno ribadito la necessità delle trattative ma senza poter escludere l’ingresso di un Paese all’interno dell’Alleanza Atlantica. Soprattutto se questo è nel “cortile di casa” del Cremlino e può rappresentare una spada di Damocle insostituibile nel cuore della potenza russa.
Ucraina e Crimea
Arrivati a questo punto, entrambi i giocatori si guardano in cagnesco e studiano mosse e contromosse. La Russia ribadisce di volere rassicurazioni nero su bianco, ma intanto continua a muovere le forze da una parte all’altra del Paese per lanciare avvertimento nei confronti degli Stati Uniti. L’ultima notizia in tal senso l’ha data il Wall Street Journal, che ha rivelato come Mosca abbia deciso di spostare carri armati, missili e uomini dall’Estremo Oriente russo alla parte occidentale della Federazione. Gli analisti si interrogano se questa mossa sia una manovra per avviare un’operazione in Crimea, una sorta di blitz nel territorio annesso dalla Russia, oppure un modo per tenere sotto pressione l’Occidente manifestando la possibilità di colpire in Ucraina. Di fatto pero la mossa di Putin sembra orientata a mantenere l’attenzione alta nei confronti del confine con Kiev. È quella la faglia su cui per adesso si sta giocando la partita più complicata: il palcoscenico di un copione bellico che si sta dipanando in tutti i suoi numerosi atti.
La Crimea rimane la vera e propria ossessione di Stati Uniti e Nato. Per Washington è essenziale evitare che Mosca abbia la possibilità di ricreare quelle condizioni con cui ha potuto prendere la penisola del Mar Nero. “Abbiamo informazioni che la Russia ha già posizionato gruppi di agenti operativi per condurre operazioni sotto falsa bandiera in Ucraina orientale. Gli operativi sono addestrati alla guerriglia urbana e nell’uso di esplosivi per condurre atti di sabotaggio contro le forze russe e le loro milizie”, ha detto Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca. Secondo la funzionaria Usa, esistono media che utilizzano una narrativa che “mette sotto accusa l’occidente per l’escalation della tensione, sottolinea questioni umanitarie in Ucraina che verrebbero risolte da un intervento russo e promuove il patriottismo russo per incoraggiare il sostegno ad un’azione militare”. Per il portavoce del Pentagono, John Kirby, “ci sono echi di quanto fecero nel 2014”. Riferendosi appunto alla Crimea.
Gli Stati Uniti possono giocare diverse carte. Innanzitutto la possibilità di un ingresso dell’Ucraina nella Nato è già di per sé un’arma da poter utilizzare per mettere sotto pressione Putin. L’ulteriore rafforzamento sul fronte militare rischia di rivelarsi un boomerang, in quanto Washington, temendo effettivamente per una invasione, potrebbe innescare il processo di adesione di Kiev. Joe Biden ha fatto intendere che non rimane attualmente un suo obiettivo prioritario. Ma come confermato anche dallo stesso presidente Usa, niente vieterebbe al governo di Kiev di fare domanda di “membership”.
Il Mar Nero
Se l’Ucraina resta il principale problema russo e degli Stati Uniti, il problema però potrebbe non riguardare solo la parte orientale del Paese, ma anche il Mar Nero. Un problema essenziale per a difesa russa, che proprio per questo motivo decise per l’occupazione della penisola salvando i bastioni navali che rischiava di perdere con il cambio di regime a Kiev
Come scrive Agenzia Nova, nella base di Opuk sono iniziate esercitazioni degli equipaggi della flotta del Mar Nero per addestrare ai sistemi missilistici antinave “Bal” e “Bastion” in cui, a detta del ministero, saranno esercitate le azioni “per difendere la costa dagli attacchi di un finto nemico”. Quel mare rimane in ogni caso anche uno dei punti deboli della potenza russa, che teme soprattutto il continuo avvicendarsi di aerei Nato dalle basi sulla costa dell’Europa orientale e il possibile arrivo di qualche nave nemica. La Convenzione di Montreux regola in modo molto stringente il flusso di navi che possono transitare attraverso il Bosforo, ma la Turchia rimane pur sempre un membro della Nato e la parte dei Balcani orientali è quasi interamente sotto l’ombrello atlantico. Per Mosca si tratta quindi di un duello che vedrebbe diversi giocatori e con gli Stati Uniti e l’Unione europea che a quel punto, insieme all’Alleanza Atlantica, potrebbero essere coinvolte insieme nella gestione delle crisi. I voli Usa, britannici e le navi delle flotte atlantiche costeggiano regolarmente la Crimea e il Mar d’Azov. E per Mosca questo è un problema, soprattutto per perché molti sottomarini ora sono nel Mediterraneo orientale.
Cuba, Venezuela e il Mediterraneo?
La Russia però non ha solo il nodo ucraino. E proprio per evitare di concentrare l’intera pressione su un’unica arena di gioco, cerca di diversificare le mosse. Evitando così che gli Stati Uniti possano credere di dovere focalizzare i propri sforzi su unico obiettivo da proteggere. In questi giorni, lo stesso Ryabkov ha sottolineato che “non è da escludere” una presenza navale russa nei porti di Cuba e del Venezuela. Un modo per far capire alla Casa Bianca di poter presto pensare a come proteggersi vicino alle proprie coste al pari di quanto fa il Cremlino al confine occidentale.
E come ulteriore segnale di diversificazione delle possibili zone di conflitto, il comandante dell’aviazione a lungo raggio della Federazione Russa, Sergey Kobylash, ha detto alla Independent Military Review che i bombardieri Tu-22MZ nella base di Khmeimim, in Siria, “possono raggiungere obiettivi in tutto il Mar Mediterraneo”. Una conferma quindi di come Mosca potrebbe colpire la Nato in qualsiasi area e dove meno se lo aspetta.
Se per l’America potrebbe trattarsi effettivamente di un colpo molto importante soprattutto sotto il profilo di immagine, diverso il caso della Siria, dove Putin ha giocato forse la sua principale partita internazionale insieme alla Crimea. Le basi russe in Siria sono un elemento imprescindibile dello scacchiere di Mosca in Medio Oriente, ma la Federazione Russa ha pagato e continuano a pagare un prezzo altissimo in termini economici per la gestione del conflitto. Gli Stati Uniti per ora appaiono disinteressati a quanto accade a Damasco e dintorni, specialmente dopo il precipitoso ritiro dall’Afghanistan, ma nulla vieta al Pentagono di riequilibrare la presenza mediorientale coinvolgendo l’Iraq e le basi nella regione. Specialmente sfruttando lo stallo nei negoziati con l’Iran. Per il Cremlino si tratta quindi di difendere una posizione ottenuta con molti sacrifici e che rischia di essere colpita se attori arabi, la Turchia, Iran e lo stesso Israele iniziano nuovamente a muoversi con vigore all’interno del panorama siriano.
Il fronte del Nord
Per Mosca rimane poi aperto anche il fronte del Nord, dove le flotte della Nato continuano a muoversi. La sfida qui è molteplice e conduce a diversi giochi di equilibrismo tattico. Da una parte la Russia ha la possibilità di muovere la Flotta del Nord spostandola direttamente nell’Atlantico. E questo potrebbe portare a un’escalation su vasta scala che coinvolgerebbe anche l’Artico. Ma Mosca dalla sua ha anche il potere di colpire l’Alleanza anche con attacchi meno evidenti ma altrettanto letali. La Marina britannica ha lanciato l’allarme sulla possibilità che i cavi sottomarini che collegano Londra alla rete internet mondiale possano essere colpiti dai sommergibili russi adibiti a questo scopo. Un’allarme che da tempo risuona nei corridoi della Difesa britannica complice anche i recenti (e misteriosi) incidenti ai cavi al largo della Norvegia.
L’Alleanza Atlantica teme che la Russia possa superare il cosiddetto Giuk Gap, quella frontiera tra mari del Nord e oceano Atlantico che unisce Groenlandia, Islanda e Regno Unito. La Royal Navy sorveglia di continuo i mari che circondano la Gran Bretagna e non sono mancati anche incidenti che hanno coinvolto proprio i sottomarini di Mosca. Ma se il Cremlino può destabilizzare il fronte del Baltico, altrettanto può fare la Nato nei confronti della potenza russa, visto che da tempo sta rafforzando la presenza in Norvegia, ci sono notizie di alcune mosse della Danimarca per blindare la presenza Nato e anche dalla Finlandia, che ordina gli F-35. Il rafforzamento della componente scandinava del blocco atlantico può essere un problema molto serio per la Russia, dal momento che le sue principali basi, tra cui San Pietroburgo, distano pochissimo dalle frontiere dell’alleanza avversaria.
Il gas: arma di ricatto?
Da diverso tempo, l’Europa lancia l’allarma sull’utilizzo politico delle forniture del gas da parte della Russia. Il fallimento dei negoziati ha fatto ulteriormente schizzare in alto il prezzo dell’oro blu sulle principali piazze europee. Il capo dell’Agenzia internazionale dell’energia, Fatih Birol, ha accusato la Russia di aver volutamente ridotto le forniture di gas all’Europa in un momento di “aumentate tensioni geopolitiche” e che questo sia frutto di un calcolo politico da parte di Putin. Per Birol, “la Russia potrebbe aumentare le forniture di gas all’Europa di almeno un terzo. Questo è il messaggio principale”. E, come riportato da Ansa, lo stesso capo dell’AIEA ha sottolineato come “Gazprom, contrariamente ad altri fornitori, come la Norvegia, l’Algeria e l’Azerbaigian, che hanno aumentato le loro forniture all’Europa, ha ridotto le sue esportazioni del 25% nel quarto trimestre del 2021 rispetto a un anno prima, nonostante gli alti prezzi di mercato”.
Mosca quindi potrebbe chiudere i rubinetti pur perdendo quote di mercato e introiti solo per premere sull’Unione europea. Ma se per Bruxelles questo può essere un avvertimento molto chiaro sul futuro delle relazioni con Mosca, altrettanto può fare Washington attraverso il principale elemento di discussione sul fronte energetico con l’Europa: il gasdotto North Stream 2. Da tempo gli Stati Uniti hanno esso sotto pressione la Germania per il gasdotto che la collega ai giacimenti russi attraverso il Baltico e spesso da Oltreoceano si ribadisce la necessità sanzionare l’infrastruttura, le aziende a esso collegate e limitare così un asset geopolitico prioritario per il Cremlino. Le navi americane cariche di gas naturale liquefatto hanno inoltre dimostrato di poter ovviare, in emergenza, alle forniture russe (pur con tutte le dovute distinzioni) e la spinta alla transizione energetica e alla diversificazione dei Paesi esportatori potrebbe essere un segnale importante anche nei confronti di Mosca. Vendere gas alla Cina per ora conviene alla Federazione Russa: ma perdere il ricco (e esigente) mercato europeo è un pericolo che le casse di Gazprom e di Mosca non possono permettersi di correre.