Gli Stati Uniti cambiano strategia, ma dalla Siria, per ora non hanno intenzione di andarsene. A riferirlo è lo stesso segretario alla Difesa, Jim “cane pazzo” Mattis, che parlando ai giornalisti ha sostanzialmente confermato l’ipotesi sulla permanenza di grandi interessi americani nel Paese mediorientale e nella rimodulazione della presenza Usa in base alle sopravvenute necessità postbelliche. Secondo le stime del Pentagono, mai del tutto chiarite e tenute nascoste, in parte, fino a questo dicembre, gli Stati Uniti sono presenti in Siria con circa 2mila unità. Queste migliaia di soldati sono state impiegate nel corso degli anni con vari compiti, dal supporto ai gruppi ribelli, al contenimento delle forze siriane, e, chiaramente, nella lotta allo Stato islamico come guida della coalizione internazionale. Ma è del tutto evidente che, allo scopo puramente militare, queste truppe hanno avuto in realtà un altro fine, principalmente di natura geopolitica, di mantenimento della capacità americana di monitorare il conflitto in aree strategicamente fondamentali per la strategia Usa nella regione, evitando che Siria, Russia e Iran agissero in modo del tutto libero e cancellassero definitivamente quanto guadagnato da Washington in anni di presenza militare e di collaborazioni con i partner regionali. Ma se, formalmente, l’ingresso Usa in Siria (mai approvato dal governo siriano) è stato giustificato in base alla presenza di Daesh, adesso che lo Stato islamico, come entità territoriale, è praticamente sconfitto – eccezion fatta per alcune sacche di resistenza di gruppi jihadisti controllate dall’esercito di Damasco – gli Stati Uniti si ritrovano sostanzialmente privi di un motivo valido per mantenere le proprie forze in territorio siriano.

E proprio per questo motivo, il Pentagono ha deciso di rimodulare la propria strategia in Siria cambiando le modalità d’intervento ma senza privarsi della propria presenza fisica sul territorio. Il tutto, chiaramente, senza l’accordo con il “padrone di casa”, e cioè il governo di Damasco, che, piaccia o meno, resta l’unica autorità formalmente in grado di poter decidere se una forza straniera sia autorizzata a entrare nel territorio sotto la sua giurisdizione. Ma questo non sembra essere un problema per Washington. L’ordine di Mattis, è quello di passare “da un approccio offensivo di conquista di terreno a uno stabilizzante”, e ha concluso dicendo che “vedrete più diplomatici Usa sul terreno”. Sul concetto di “diplomatici”, Mattis evidentemente intende funzionari e civili statunitensi. Prima di queste frasi, come riporta l’agenzia Reuters, Mattis aveva dichiarato che le forze degli Stati Uniti sarebbero rimaste in Siria finché i combattenti dello Stato islamico avessero voluto combattere e per impedire il ritorno di un “Isis 2.0”. Ma Mattis, subito dopo, è diventato più esplicito. Non si tratta soltanto di “diplomatici”, ma di civili. E fra i civili, formalmente, fanno parte anche i contractors. E infatti, il segretario alla Difesa ha anche detto che quando i “diplomatici” arrivano per il ripristino dei servizi e delle infrastrutture, “portano i contractors, quel genere di cose”. E i mercenari, specialmente quelli di Academi (ex Blackwater) hanno assunto un grande peso nella politica militare di Washington. “C’è del denaro internazionale che deve essere amministrato, che serve a qualcosa e che non vada nelle tasche della gente sbagliata”, ha aggiunto Mattis. Fra i compiti dei funzionari e dei contractors vi sarebbero anche quelli di addestramento delle forze locali allo sminamento e al controllo del territorio.

“È un tentativo di andare verso la normalità e questo richiede un grande supporto”, ha detto Mattis, senza però specificare né la quantità di questo personale “civile” da inviare in Siria né sulla finestra temporale. Tuttavia, come conferma Reuters, in una lettera ai membri della coalizione guidata dagli Stati Uniti, un alto funzionario del Pentagono ha scritto che si aspettava il proseguimento delle operazioni militari anche nel primo trimestre del 2018. “Gli Stati Uniti sono pronti a rimanere in Siria finché non siamo sicuri che l’Isis è sconfitto, che gli sforzi di stabilizzazione possano essere sostenuti e che ci siano significativi progressi nel processo politico di Ginevra”, ha detto Brett McGurk, inviato speciale degli Stati Uniti alla coalizione. Ma ci sarebbe da aggiungere un motivo ulteriore, non detto esplicitamente ma evidente nei movimenti statunitensi: non lasciare a Damasco, Teheran e Mosca il controllo totale sull’area orientale della Siria al confine con l’Iraq.