Lo scorso 8 agosto un incidente nella base di Severodvinsk, nella regione di Arcangelo in Russia, ha provocato la morte di 5 tecnici della Rosatom (l’agenzia atomica di Mosca) ed il rilascio in atmosfera di una nube radioattiva che è stata subito segnalata dal sistema di monitoraggio internazionale Ims, l’organo predisposto alla verifica della messa al bando dei test nucleari.
Il “silenzio” russo e la cortina fumogena di disinformazione sollevata subito dopo l’incidente hanno fatto pensare che sia occorsa un’esplosione durante un test del nuovo missile da crociera a propulsione nucleare Burevestink (Procellaria in russo): una delle ultime “super armi” di Putin coperte dal più assoluto segreto.
Inizialmente le autorità russe hanno infatti comunicato che si era trattato di un incidente che ha coinvolto il trattamento di un generico “liquido propellente per velivoli” non specificando né la natura di tale propellente né la tipologia del sistema d’arma coinvolto.
Ora, grazie a delle indiscrezioni rivelate da fonti dell’intelligence statunitense alla Cnbc, si è aperta una nuova ipotesi sull’origine della nube radioattiva.
Un tentativo di recupero di un Burevestnik andato male
Secondo quanto riferito dal network americano, la nube che ha lambito Finlandia e Norvegia è stata originata dall’esplosione di un missile Burevestnik nel momento in cui erano in corso le operazioni di recupero dal fondo del mare, a seguito di un precedente test di volo conclusosi con un fallimento.
Le fonti dell’intelligence Usa riferiscono infatti che “Non si è trattato di un nuovo lancio dell’arma, al contrario era una missione di recupero di un missile perso in un test precedente” aggiungendo che “c’è stata un esplosione su una delle unità navali intente nel recupero che ha causato una reazione nel nucleo radioattivo del missile che ha portato al rilascio di radiazioni”.
Mosca, ovviamente, tace, ma in considerazione di quello che sappiamo dei lanci di prova del missile Burevestnik l’ipotesi sollevata dall’intelligence americana potrebbe essere corretta.
Il primo lancio del nuovo missile, in cui è stato testato il booster che accelera il missile sino a velocità ipersonica, è stato condotto alla fine del 2017.
In quell’occasione il missile si inabissò nel Mare di Barents e la Russia si impegnò in un rapido recupero del relitto anche per evitare che potesse finire in mani “nemiche” per essere studiato. Non sappiamo se il tentativo di recupero messo in atto allora sia andato a buon fine.
In totale i test di volo del missile sono stati quattro effettuati tra il novembre del 2017 e il febbraio del 2018, tutti effettuati senza che il motore a propulsione nucleare fosse montato a detta di Mosca. Il tempo di volo più lungo è stato di oltre due minuti in cui Burevestnik ha volato per circa 35 chilometri mentre il più breve, della durata di alcuni secondi, ha comunque permesso al vettore di volare per otto chilometri.
Non abbiamo modo di sapere se l’affermazione delle autorità russe in merito all’assenza del propulsore atomico durante tutti e quattro i test corrisponda al vero. Le stazioni di rilevamento radiazioni non hanno segnalato particolari anomalie nei giorni successivi ai test e si pensa che un vettore missilistico a propulsione atomica lasci una scia di isotopi radioattivi durante il suo volo.
Si potrebbe ipotizzare che il Burevestnik monti un motore atomico di nuovissima concezione – l’idea come abbiamo già avuto modo di dire non è nuova – in grado di non rilasciare in atmosfera i prodotti di scarto radioattivi del propulsore. Questo spiegherebbe sia perché i test non hanno emesso radiazioni sia la nube rilasciata dal presunto fallito tentativo di recupero.
La scienza ci potrebbe essere d’aiuto
Per cercare di alzare la cortina di disinformazione calata dalla Russia sull’accaduto, possiamo cercare di guardare a cosa ci racconta la scienza dell’energia atomica.
Secondo quanto riferito dalle autorità russe (Roshydromet) e dall’Ims, gli isotopi radioattivi della nube, così come è stata captata dagli strumenti di rilevamento, era composta da stronzio-91, bario-139, bario-140 e lantanio-140.
Questi isotopi si formano nel nocciolo di un reattore nucleare come sottoprodotti della reazione di fissione che genera energia, e sarebbero il tipo di particelle radioattive che verrebbero rilasciate in caso di esplosione del nocciolo, come riferisce Claire Corkhill dell’univeristà di Sheffield (Uk) a Nature.
Ma l’esplosione del nocciolo di un reattore avrebbe rilasciato anche cesio e iodio radioattivi, come afferma Marco Kaltofen del Worcester Polytechnic Institute di Boston. Le tracce di iodio-131, individuate a Svanhovd, in Norvegia – 700 chilometri dall’esplosione – sembrano però avere altra origine: l’elemento può essere rilasciato in piccole quantità durante la produzione di radionuclidi per scopi medici.
Allora di cosa si tratta? Boris Zhuikov, capo del Laboratorio di Radioisotopi dell’Istituto per le Ricerche Atomiche dell’Accademia delle Scienze di Mosca, ha una spiegazione alternativa: un’esplosione che avrebbe danneggiato l’involucro del reattore, piuttosto che il suo nocciolo, generando una perdita di gas nobili – prodotti di fissione – che nel periodo di tempo impiegato per raggiungere le stazioni di rilevamento a Severodvinsk sono decaduti negli elementi osservati.
Se così fosse potrebbe essere la “pistola fumante” che certifica la possibilità di un’esplosione collaterale, magari parassita, che portato alla distruzione dell’involucro del reattore di un missile Burevestnik in qualche fase del suo recupero dal fondo del Mare di Barents.
Da questo punto di vista anche le riprese satellitari possono essere indicative: prima e dopo l’esplosione è stata individuata un’unità navale già vista in occasione degli altri test missilistici che molto probabilmente è stata impiegata in passato in operazioni di recupero successive ai test dei Burevestnik, tutti condotti con lanci verso il mare.