“Sai perché le chiamano bouncing Betty, Sven?” Domanda Porta. “No, perché?”. “Perché si dice saltellino come la Betty del cinema, prima di bruciarti i peli della schiena”, risponde Fratellino, col suo consueto sarcasmo.
A parlare è la “soldataglia” di Sven Hassel, autore danese di un ciclo di romanzi bellici, in parte fondati sulla sua vita di combattente in una unità penale della Wehrmacht, dal 1940 al 1945.
Romanzi, ma particolarmente realistici: Hassel, infatti, vive in prima persona, per cinque lunghi anni, le atrocità della Seconda Guerra Mondiale. E proprio da quei ricordi di vita al fronte è tratto lo scambio di battute fra i personaggi Porta, Sven e Fratellino, che discutono della Schrapnel mine (o S-mine), fra le più diffuse armi anti uomo della Storia.
La mina: eterno nemico della fanteria e dei civili, questi ultimi esposti al pericolo anche molto tempo dopo la fine di un conflitto. Ne sono esempio le morti dell’Evros, fiume-porta dell’Europa per i migranti e per i profughi che vengono dalla Turchia.
Stando a dati dell ‘ ICBL (International Campaign to Ban Landmines), infatti, nei pressi del fiume 66 persone (88 secondo stime più recenti) sono morte per scoppi di mine fra il 2000 e il 2008. Disperati che, alle insidie del viaggio, devono aggiungere i campi minati realizzati dal governo ellenico durante la Crisi di Cipro (1974), per proteggere il fianco orientale del paese da potenziali attacchi turchi. Circa 25 mila le barriere, anti carro e anti uomo, che continuano e mietere vittime: malgrado gli sforzi di Atene per bonificare la zona dagli ERW (Explosive Remnants of War – residuati bellici), non tutti gli ordigni sono stati neutralizzati. D’altronde, per le loro piccole dimensioni non è difficile che essi vengano spostati e celati dalla terra inseguito a smottamenti, inondazioni e piogge.
Un problema, la bonifica, comune a molte altre aree del mondo, dall’ Afghanistan, alla Birmania, dalla Colombia, all’ Irak.
D’altra parte, prima dell’entrata in vigore della Convenzione internazionale per la proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione, vendita di mine antiuomo e relativa distruzione ( o Trattato di Ottawa, 1° marzo 1999, nda), questo tipo di arma è stata impiegata su tutti i fronti, in particolare nei conflitti anti coloniali che hanno infiammato la seconda metà del Novecento: guerra d’Indocina, guerra di Corea, campagna d’Algeria, guerra del Vietnam, guerra d’oltremare portoghese, invasione sovietica dell’Afghanistan, guerre nei Balcani. Senza contare che i bassi costi di realizzazione ne hanno permesso ampia commercializzazione.
Un’idea della quantità di anti-personnel mines che possono essere prodotte da un singolo paese ce la dà un articolo de La Repubblica del febbraio 1991, Nove milioni di mine a Saddam, dedicato al processo contro gli amministratori della Valsella Meccanotecnica di Montichiari (BS) rei, secondo la magistratura, di aver venduto illegalmente armi al regime di Baghdad per la campagna contro l’Iran (verranno poi dichiarati non colpevoli di vendita illegale di armi, nda). Nove milioni di mine vendute da una sola azienda: prendendo come campione i principali teatri bellici, dal 1945 ad oggi, è piuttosto facile avere la percezione del numero di ERW ancora non neutralizzati. Ad esempio, ad oltre un quarto di secolo dal ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan, si stima siano ancora 10 milioni le mine inesplose sul territorio afghano.
A fronte della quantità enorme di residuati bellici, l’attività di sminamento è piccola cosa: bonificare, infatti, è rischioso e richiede perizia e la perizia ha costi elevati. Al di là degli aspetti finanziari, poi, i campi minati costituiscono ostacolo alla costruzione di infrastrutture necessarie alla realizzazione economica e sociale di nazioni che, nella maggior parte dei casi, appartengono alla fascia dei paesi in via di sviluppo.