Forse è un caso oppure, più probabilmente, il segno più profondo delle atrocità che a pochi passi da noi vengono perpetuate oramai da anni senza che si intraveda una soluzione all’orizzonte. Fatto sta che ogni qualvolta in Libia ci si avvicina ad una svolta, escono fuori storie e racconti che rimandano a fosse comuni ed a sparizioni di centinaia di cittadini. Sta accadendo in questi giorni, contraddistinti dall’indietreggiamento del generale Khalifa Haftar dalla Tripolitania, ma è già successo all’origine di questo conflitto, ossia quando nel marzo del 2011 la storia circa la presenza di fosse comuni ha rappresentato uno dei pretesti per attaccare Muammar Gheddafi.
Il pretesto per l’attacco contro Gheddafi
Era il mese di febbraio del 2011, da alcuni giorni l’est della Libia appariva attraversato da intense proteste contro i vertici della Jammahiriya e del governo, esplose sulla scia di quanto accaduto poche settimane prima in Egitto ed in Tunisia. Erano infatti i mesi della cosiddetta “primavera araba“, contraddistinti da un’ondata di proteste in tutto il mondo arabo che aveva già portato alla caduta di Ben Alì in Tunisia e Mubarack in Egitto. Gheddafi sembrava immune dal contagio delle rivolte, visto il buon andamento dell’economia in quel momento, tuttavia dispute tribali e rivalse trasversali di vari gruppi hanno acceso ben presto la situazione anche in Libia. Le immagini che arrivavano dal Paese nordafricano erano eloquenti: disordini nelle strade di Bengasi e della Cirenaica, dove il gheddafismo era meno radicato che altrove, prime proteste anche a Tripoli. Tanto che il rais ha dovuto alzare la voce in un suo discorso alla nazione tenuto dalla caserma bunker di Bab Al Aziziya. Poi, dopo la prima settimana di proteste, dal mondo arabo sono uscite altre indiscrezioni: Gheddafi, in particolare, avrebbe bombardato le piazze con i manifestanti ed i morti erano così tanti da costringere le forze di sicurezza a scavare fosse nelle spiagge per seppellirli.
I primi a parlare di fosse comuni sono stati alcuni giornalisti di Al Jazeera, ben presto a rilanciare la notizia c’hanno pensato anche altri network arabi. Tra le fonti usate per parlare di migliaia di vittime seppellite in uno stesso punto, c’era anche quella di Sayed Al Shanuka. Quest’ultimo ha dichiarato in quel mese di febbraio che i raid del rais avevano provocato almeno diecimila morti e 55mila feriti. Al Shanuka si spacciava per membro libico della Corte Penale Internazionale, per tal motivo in tanti hanno dato inizialmente credito alle sue accuse. La notizia delle fosse comuni hanno quindi iniziato a fare il giro del mondo ed è stata presa come una prova determinante per incolpare Gheddafi e metterne in discussione l’autorità. Francia e Gran Bretagna hanno iniziato a premere per un’iniziativa militare in Libia volta a creare una “no fly zone” ed a difendere i civili. Quando si è scoperto in seguito che Al Shanuka non era affatto un membro della Corte Penale internazionale e che nessun raid era stato ordinato da Gheddafi a Bengasi o Tripoli, era già troppo tardi: gli aerei della Nato si erano alzati in volo da mesi ed il potere del rais collassato, con danni recati alla Libia a cui ancora oggi non si è trovato rimedio. Il direttore di Limes Lucio Caracciolo non a caso ha parlato, alcuni mesi dopo, di “collasso dell’informazione”.
Le fosse comuni di Tarhouna
A Tarhouna, a differenza che nel 2011, le fosse comuni purtroppo ci sono per davvero. Almeno 160 corpi sono stati scoperti alcuni giorni fa, dopo che la città è rimasta al centro degli scontri tra le milizie vicine al Gna del premier Fayez Al Sarraj e l’esercito guidato da Khalifa Haftar. Quest’ultimo si è dovuto ritirare dalla Tripolitania, lasciando spazio alle milizie tripoline ed a quelle filo turche inviate da Ankara a sostegno di Al Sarraj. Tarhouna, centro strategico poco più a sud della capitale, è rimasta contesa per diverse settimane prima dell’ingresso delle milizie del Gna. In questo contesto, alcune fosse comuni con all’interno decine di corpi sono state scoperte intorno alla città. Per identificare i cadaveri, hanno riferito fonti locali, ci vorrà del tempo. Ma intanto è stato possibile scoprire che le vittime non erano solo combattenti, bensì anche civili, tra cui donne e bambini. I corpi sono stati affidati alla Mezzaluna Rossa, la quale non ha escluso la possibilità di ritrovare nei dintorni di Tarhouna altre fosse comuni con altri cadaveri al loro interno.
Il rimpallo di responsabilità
La Libia è governata da una moltitudine di gruppi e milizie corrispondenti spesso a tribù e famiglie che hanno il controllo su un determinato territorio. Ed anche Tarhouna ovviamente non fa eccezione. Quel passaggio di mano tra Gna ed Lna è stato, così come accaduto già in altre località, un cambiamento di posizione di alcuni gruppi più che una conquista militare a tutti gli effetti. Tarhouna, fino a pochi giorni fa, era controllata dalle milizie dei fratelli Kani. Questi ultimi sono al timone della cosiddetta “Settima Brigata“, che almeno fino al 2018 era parte integrante delle milizie del Gna. Poi il gruppo ha giurato fedeltà all’Lna di Haftar ed ha iniziato ad essere noto con il nome di “Nona Brigata“. Con l’arrivo delle milizie filo Al Sarraj e filo turche, non si conosce il destino dei fratelli Kani e né della Settima o Nona Brigata. Si sa però che all’interno di Tarhouna è iniziata una cruenta resa dei conti. Ed in un simile contesto, sono partite accuse da una parte e dall’altra: il Gna ha puntato il dito contro l’Lna per la presenza di fosse comuni. Attivisti locali, come raccontato da SpecialeLibia.it, hanno accusato i fratelli Kani di aver ucciso decine di persone negli ultimi anni, spesso per motivi ideologici o relativi alle appartenenze familiari.
Ma da Bengasi sono arrivate smentite circa le indiscrezioni lanciate dal Gna. In una nota, resa nota sempre su SpecialeLibia.it, le autorità che controllano l’est della Libia hanno voluto specificare di non essere responsabili della morte delle persone ritrovate all’interno delle fosse comuni: “I video mostrano che questi sono i corpi puri degli eroi dell’esercito nazionale libico – si legge – su cui sono scritti i loro nomi e cognomi. Quindi, questi gruppi terroristici affiliati ad al-Sarraj hanno trasferito i corpi dei martiri dell’esercito nazionale libico in altri luoghi, descrivendoli come fosse comuni”.
“Queste accuse – prosegue la nota – sono state ricevute dalla Missione di Sostegno delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL) e dal Segretario generale delle Nazioni Unite come crimini di guerra e gravi violazioni dei diritti umani. Questa è la prova conclusiva per rispondere a queste false accuse, adottate dalle Nazioni Unite che ha rapidamente denigrato le forze armate arabe libiche per aver commesso questi crimini atroci, il che conferma senza dubbio l’intenzione premeditata e ben intenzionata contro le forze armate arabe libiche da parte delle Nazioni Unite, il suo Segretario Generale e la loro Missione in Libia”.
Il contesto attuale della guerra in Libia
Scambi di accuse dunque, che ben riflettono la situazione attuale nel Paese nordafricano. In questo momento anche le informazioni che arrivano dai campi di battaglia hanno il loro peso. I libici ben ricordano quanto accaduto nel 2011: le notizie relative alla presenza di fosse comuni hanno determinato il corso degli eventi. Dunque, sia per Al Sarraj che per Haftar accusare l’altro di essere responsabili delle fosse comuni appare importante per orientare a proprio favore il consesso internazionale. Ad andarci di mezzo sono le vittime di queste atrocità: chi è stato sepolto all’interno delle fosse, non solo ha perso la vita ma ha perso anche il diritto alla verità.