L’incrociatore lanciamissili Moskva, gioiello della Marina prima sovietica e poi russa, ha terminato una carriera quasi quarantennale – era entrato in servizio nel 1983 – nel peggiore dei modi: silurato nel corso di una guerra, affondato durante il rimorchio verso Sebastopoli. Uno smacco, l’ennesimo, ad una potenza, la Russia, che aveva invaso l’Ucraina nella speranza-aspettativa di portare avanti un’operazione-lampo in stile Georgia 2008 e che, invece, ignorando e/o sottovalutando la trappola tesa dall’amministrazione Biden, si è ritrovata nel mezzo di un costoso pantano all’afghana.
Il roboante inabissamento del Moskva, nave ammiraglia della Flotta del Mar Nero, potrebbe essere ricordato come uno dei punti di svolta della guerra in Ucraina, come un evento parimenti importante al massacro di Buča, perché trattasi di un grave danno di immagine per il Cremlino, che, in quanto tale, non potrà non produrre conseguenze.
I due possibili effetti dell’affare Moskva
Per il Cremlino non è successo nulla: la punta di diamante della Marina russa è stata colpita da un incendio e si è inabissata per via del maltempo. Una ricostruzione anche realistica nella sua prima parte, perché essere dei contenitori galleggianti di munizioni e armi è notoriamente fonte di rischi e causa di incidenti simili, ma che non ha retto alla prova dei fatti, o meglio alla prova del bollettino meteo: nessuna tempesta registrata dai satelliti nei momenti e nelle acque del traghettamento.
L’eclatante messa fuori servizio dell’incrociatore lanciamissili, che ricorda da vicino i siluramenti a sorpresa dei cacciatorpedinieri britannici da parte degli astuti argentini durante la guerra delle Falkland/Malvinas, potrebbe avere due effetti sul corso della guerra: radicalizzare o ammansire il Cremlino. Due scenari contrari, opposti, ma aventi un’origine comune: il sentore della sconfitta.
L’abbattimento del Moskva potrebbe persuadere la Russia ad accelerare il raggiungimento di un accordo con l’Ucraina, sotto forma di pace piombata o di tregua, a mezzo della riattivazione del canale negoziale aperto da Recep Tayyip Erdoğan. Ma potrebbe altresì spingere il Cremlino, inasprito dal crescendo di contraccolpi inattesi, ad alzare tono e carattere del conflitto con l’obiettivo di accelerare la cattura dell’Ucraina sudorientale.
Perché la Russia “non” può fermarsi
Che si avvicini o che si allontani la prospettiva di un cessate il fuoco, o di una pace di piombo, l’attacco al Moskva rappresenta un durissimo colpo al prestigio delle forze armate russe e verrà ricordato come l’ennesima vittoria di un piccolo Davide, l’Ucraina, contro il Golia di turno, la Russia.
Grazie al supporto-chiave dell’Alleanza Atlantica, dagli armamenti all’intelligence, l’Ucraina è riuscita a sabotare in maniera significativa l’agenda bellica della Russia, che, preso atto dell’inaspettata tenacia e dell’elevata preparazione del personale ucraino, nonché della mancanza di appoggio a livello di popolazione – altro (grave) errore di calcolo da parte di Vladimir Putin –, ha dovuto rivalutare i piani di invasione sensibilmente al ribasso – dall’intera nazione alla continuità territoriale tra Crimea e Donbas – e si trova ora costretta ad un bivio, mollare o stringere la presa, anche e soprattutto a causa di fattori esogeni.
È per via dei fattori esogeni, in primis gli Stati Uniti e in secundis la Repubblica Popolare Cinese, che la Russia non può permettersi di perdere. Perché arrendersi, raggiungere un compromesso adesso, spronerebbe la presidenza Biden ad incrementare la pressione su altri teatri pivotali per il Cremlino, fuori e dentro la russosfera, poiché un rivale debole è un rivale prevaricabile e da prevaricare. Ma accordarsi in questo momento avrebbe delle ripercussioni anche sulla solidità dell’asse con Pechino, che potrebbe cominciare a dubitare dell’affidabilità di Mosca nella battaglia per la transizione multipolare.
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Il fattore Biden
Dal punto di vista russo, in sintesi, l’accordo non è contemplato. Non ora, non prima di aver finalizzato e securizzato il cordone ombelicale/stato caserma in divenire tra Crimea e Donbas; un’area poco più grande della Gran Bretagna dall’elevato valore: sicurezza idrica, risorse naturali, accresciuta esposizione sul Mar Nero, leva di pressione su Kiev (e sull’Occidente). Un’area che, in ragione del suo intrinseco valore, non è detto che verrà lasciata facilmente in mani russe dal blocco euro-ucraino-americano. Ed è questo il nocciolo dell’intera questione: se è vero che la Russia non può cedere, lo è altrettanto che gli Stati Uniti non vogliono.
Se anche Putin volesse scendere a patti con Volodymyr Zelenskij, perché preoccupato dall’aggravarsi di questa guerra di logoramento all’afghana e/o perché desideroso di portare a casa un bottino per il 9 maggio (Giornata della Vittoria) così da salvare la faccia davanti all’opinione pubblica e da placare i dissidi nella cerchia di potere, non va dimenticato né trascurato il peso del “fattore Biden”.
Gli Stati Uniti, che serbano la triplice ambizione di dissanguare il rivale eurasiatico nel teatro ucraino, di profittare del conflitto per stringere la morsa sull’Unione Europea e di inviare un monito alla vera sfida sistemica del XXI secolo, il rinato Impero celeste, non vogliono trattare. Non adesso. Non nel mezzo dell’implementazione del più esteso regime sanzionatorio mai applicato ad uno stato – superiore per settori coinvolti e misure adottate a quelli contro Cuba e Iran. Non mentre va facendosi realtà il sogno brzezinskiano di disaccoppiare UE e Russia. Non in questi giorni tesi, delicati, di parziale ma eloquente affaticamento del dispositivo militare russo. E per fare la pace, si sa, bisogna essere in due.