La guerra in Ucraina non ha “cancellato” quella in Siria. Lo sanno bene i milioni di profughi presenti in uno dei tanti campi all’interno del territorio siriano. E lo sanno bene a Damasco, ad Aleppo, a Homs, dove la morsa delle sanzioni occidentali sta impedendo l’avvio di un serio piano di ricostruzione dopo la riconquista dell’esercito siriano, supportato dai russi, di queste città. Lo sanno inoltre in quei territori ancora al di fuori del controllo governativo. Come a Idlib, in mano da anni a milizie islamiste soprattutto filoturche. Oppure nelle regioni al di là dell’Eufrate, controllate dai curdi e dove in parte ancora si trovano gli americani portati qui da Obama all’epoca della guerra all’Isis. La guerra ancora c’è e non è detto che il conflitto in Ucraina non abbia conseguenze o influenze anche da queste parti.

Qual è la situazione a livello militare

La guerra in Siria viene oramai considerata a “bassa intensità”. Ma questo non vuol dire che sia finita. Al contrario, il Paese sta ancora vivendo le più gravi conseguenze del conflitto. Certo, la situazione è diversa rispetto ad alcuni anni fa. Quando i russi qui nel settembre 2015 sono intervenuti a sostegno del presidente Assad, Damasco era assediata, l’Isis aveva raggiunto Palmyra e Aleppo divisa tra quartieri governativi assediati e zone ancora in mano ai ribelli. Questi ultimi nella città siriana erano rappresentati soprattutto da forze islamiste, alcune delle quali legate al Fronte Al Nusra, costola locale di Al Qaeda. Vivere in questi territori era impossibile. Uscendo di casa, sia che ci si ritrovava dalla parte sotto controllo governativo o in quella sotto controllo ribelle, si correva il rischio di cadere per mano dei continui raid. Oggi è un po’ diverso. Nelle principali città siriane la vita scorre normalmente, seppur tra mille difficoltà economiche. Sono pochi i problemi di sicurezza, negli ultimi due anni è possibile spostarsi anche tra una provincia e un’altra, specialmente nella Siria tornata sotto il controllo di Damasco.

I fronti più caldi rimangono quelli settentrionali. Qui vige un cessate il fuoco mediato nel gennaio 2020 da Russia e Turchia. In quel mese Putin ed Erdogan in persona hanno concordato a Sochi un’intesa per far cessare gli scontri in atto tra l’esercito siriano e i miliziani filoturchi. Truppe di Mosca e truppe di Ankara pattugliano da allora costantemente la linea di contatto tracciata poco lontano dalla città di Idlib, l’ultimo capoluogo siriano non ancora ripreso da Assad. Negli ultimi due anni si è sparato poco. A questo forse ha contribuito anche il Covid, con la pandemia che ha implicitamente “consigliato” alle parti di congelare il conflitto. C’è poi un altro fronte caldo a nord di Aleppo. Riguarda i territori del cantone di Afrin. Un tempo a maggioranza curda, dal 2018 la zona è controllata dai miliziani filoturchi. Ma i curdi stanno continuando a sparare e ogni settimana si registrano scontri e tensioni.

Infine c’è il settore orientale della Siria. Al di là dell’Eufrate sono i filocurdi dell’Sdf a controllare le province, fatto salvo per alcune eccezioni dove le città sono pattugliate congiuntamente con russi ed esercito siriano. Lo status di queste regioni è il vero perno politico che attualmente impedisce ogni soluzione. I curdi controllano zone un tempo a maggioranza araba, dunque anche l’idea di rendere autonoma questa vasta porzione di Siria non va a genio né a Damasco e né alla popolazione locale. In più c’è, nella zona non lontana dal confine iracheno, la presenza dei soldati Usa che Assad ritiene illegale. A nord invece Erdogan preme per la costituzione di una fascia di sicurezza, minacciando a più riprese nuovi interventi armati da parte dei miliziani da lui controllati. Una polveriera solo parzialmente domata, è questa l’immagine della Siria di oggi mentre il mondo, già distratto a fasi alterne, oggi guarda unicamente alle vicende in Ucraina.

Il rischio di un disastro umanitario

Fin qui la situazione sul campo. A preoccupare di più, prima ancora che una ripresa su larga scala dei combattimenti, è il fronte umanitario. Da questo punto di vista la Siria è unita: a prescindere se si è sotto l’occupazione islamista oppure nei territori curdi o in mano al governo, non c’è famiglia siriana che non patisca fame e miseria. Una situazione già al limite prima della guerra in Ucraina. La pandemia ha azzerato ogni timida ripresa economica, in più le sanzioni continuamente rinnovate dall’Europa e dagli Usa non stanno permettendo lì dove la guerra è passata di iniziare la ricostruzione. Il conflitto in corso lungo le sponde del Mar Nero potrebbe peggiorare ancora di più i problemi. Anche la già stremata Siria si rifornisce del grano ucraino. Con il blocco delle esportazioni navali, a Damasco arriva sempre meno cibo. Vale sia per le città che per i campi profughi. Sacchi di farina e generi di prima necessità stanno iniziando a diventare merce sempre più rara. Lo spettro di una crisi alimentare è dietro l’angolo.

Ai siriani è mancato il lavoro ed è mancata la pace in questi anni, adesso potrebbe mancare seriamente anche da mangiare. Da ogni angolo del Paese la gente invoca repentine soluzioni per evitare il disastro. Se la guerra in Ucraina è in grado di mettere in difficoltà nell’approvvigionamento l’Europa, la logorata Siria potrebbe vivere fasi ancora più dure di quelle che il conflitto stesso le ha fatto patire. L’impressione è che la stessa ricostruzione del Paese oggi deve andare in secondo piano. Per adesso l’essenziale da queste parti è sopravvivere. In attesa che il mondo si ricordi di una guerra iniziata nel 2011 e mai conclusa.

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