Quanto sta accadendo in questi giorni in merito ai massacri (veri o da verificare) di civili compiuti dai russi durante il conflitto in Ucraina, apre una nuova finestra di indagine sulla reale possibilità di mettere in atto pratiche di mascheramento e disinformazione durante una guerra moderna.

La Russia ha una lunga tradizione di metodologie di mascheramento e disinformazione sin dai tempi dell’Unione Sovietica: maskirovka e dezinformatsiya sono due strumenti di quelle che vengono definite misure attive” (aktivnye meropriyatiya) che vengono messe in pratica per condurre operazioni in quella che viene definita “zona grigia”, ovvero in una situazione conflittuale che non prevede apertamente l’uso dello strumento militare, oppure che lo prevede solo in modo molto limitato e spesso senza ufficialità in modo da avere sempre la possibilità di avere una negazione plausibile.

Ma la dezinformatsiya, così come la maskirovka, prosegue anche durante un conflitto convenzionale come quello che stiamo vedendo in Ucraina. Due esempi lampanti di disinformazione sono l’articolo di propaganda pubblicato su Ria Novosti ad opera del politologo Timofey Sergeytsev, che arriva a distanza di quasi un anno di un altro in cui viene usata la stessa retorica “denazificante”, e i documenti prodotti dal Ministero della Difesa russo che evidenzierebbero la presenza di armi biologiche fabbricate col placet e la consulenza scientifica degli Stati Uniti in Ucraina. Mentre per il primo caso la natura propagandistica dell’articolo è talmente evidente che è possibile farlo rientrare in quella campagna ideologica volta a giustificare il conflitto sul fronte interno con motivazioni pseudostoriche e capziose, nel secondo caso i documenti sui laboratori biologici, benché si possa loro concedere il beneficio del dubbio in merito all’autenticità o meno, sembrano comunque essere il classico esempio di “misura attiva” atta a fuorviare l’opinione pubblica estera generando il caso mediatico internazionale.

Viene pertanto da chiedersi se, nell’era dei satelliti e delle riprese video “in diretta” effettuate da droni o osservatori casuali armati di smartphone, sia ancora possibile fabbricare “disinformazione” di livello pari a quella data da semplici documenti cartacei artefatti.

Nell’epoca digitale si è portati a pensare che sia più difficile creare una “notizia falsa”: un video ripreso con un telefono cellulare, un’immagine satellitare di un operatore commerciale (open source) oppure la stessa possibilità di geolocalizzare un evento fanno ritenere che sia impossibile distorcere la realtà oppure inventare un fatto completamente.



Proprio l’alto livello tecnologico raggiunto, però, è quello che permette di confezionare “da zero” un fatto da usare per la disinformazione. Pensiamo solamente a quanto accaduto coi numerosi video degli attacchi aerei che hanno sommerso il web in queste settimane di guerra: alcuni di essi (in realtà molto pochi) erano solamente degli spezzoni di videogiochi in altissima risoluzione. Questo ha contribuito a gettare ombre sull’autenticità di tutti i video apparsi, anche quelli che, dopo attenta analisi, si sono dimostrati veri. Spesso sono anche comparsi video di conflitti precedenti, rilanciati dai media occidentali senza aver fatto un adeguato – e lungo – controllo online, mentre altre volte la geolocalizzazione del filmato non è stata possibile ma si è comunque presa “per buona” la fonte.

Risulta chiaro quindi “il vizio” che si affianca al pericolo dell’uso spregiudicato di videoriprese provenienti da fonti terze per documentare un conflitto: siamo portati a definire come reale quello che più si avvicina alla nostra opinione/ideologia rifiutando tutto quanto se ne discosta e bollandolo come “falso” anche quando non lo è. Il pericolo quindi è quello di un’informazione “di parte”, inesatta e fuorviante che viene sfruttata dalle parti belligeranti secondo i propri fini propagandistici.

La stessa geolocalizzazione di un video, se non fatta da personale esperto in grado di dimostrare la metodologia usata per farla, è del tutto inefficace per lo scopo della ricerca “della verità”, e, anzi, diventa un’arma a doppio taglio: si corre il rischio di essere smentiti nella metodologia andando così a inficiare la veridicità di quanto ripreso. Gli stessi video, siano essi provenienti da un drone commerciale o da uno smartphone, possono essere ritoccati con software di grafica di altissimo livello per nascondere o creare particolari fondamentali, quindi, ancora una volta, le cosiddette fonti OSINT (Open Source Intelligence) rappresentate da osservatori casuali vanno attentamente vagliate. Le stesse fotografie satellitari pubblicamente diffuse, se provenienti da operatori commerciali che negli ultimi anni stanno ritagliandosi una nicchia di mercato importante, non sono garanzia di veridicità: innanzitutto la loro risoluzione è inferiore rispetto a quelle catturate dagli operatori militari, in secondo luogo la datazione può essere cambiata arbitrariamente e il pubblico, così come il giornalista, difficilmente è capace di riconoscere questo artificio. Due fotografie satellitari scattate a pochi giorni di distanza, ad esempio, potrebbero essere facilmente scambiate se non si è in grado di avere un record fotografico che mostri l’evoluzione temporale quotidiana del luogo ripreso, e qualora persistano dubbi sulla datazione (che può essere artefatta per il grande pubblico) sarebbe necessario comunque affiancare osservazioni certificabili da parte di personale o strumenti in loco, in grado di confermarne l’andamento nel tempo (ad esempio video o fotografie di strumenti ottici di sorveglianza).

Questo non significa che si debba sempre dubitare di tutto: le risorse utilizzate dagli Stati, se attivate, sono in grado di dare un ragionevole grado di certezza, ma bisogna sempre considerare che tali risorse possono essere utilizzate per “confezionare” notizie false o parzialmente tali da dare in pasto all’opinione pubblica, quindi, nel caso di crimini di guerra, è preferibile un atteggiamento prudente finché non vengono prodotte prove inconfutabili.





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