Con l’inizio del conflitto in Ucraina, l’Europa è tornata al centro dello scacchiere bellico internazionale. La guerra è di nuovo nel cuore del Vecchio Continente, con la frontiera orientale in cui sembra calata una rinnovata cortina di ferro che divide Russia e Occidente. Al centro della scenario vi è certamente il Paese invaso, l’Ucraina. Ma il conflitto ha anche dimostrato come questo scontro sia anche proiettato su altri livelli. Uno di questi è il mare, elemento fondamentale che circonda l’Europa e che ha una sua importanza vitale anche nel teatro ucraino. E lo confermano tutte le dinamiche che hanno interessato l’evoluzione della guerra scatenata da Mosca, in cui tanto ha avuto peso non solo il Mar d’Azov, ma anche la Crimea, il controllo dell’isola dei serpenti fino alla dimensione navale della guerra asimmetrica ucraina per finire nel più intricato e complesso tema delle mine che hanno invaso il Mar Nero.
La sfida per il Mar Nero
Questo mare ha assunto nel corso degli ultimi anni una rilevanza strategica sempre maggiore, in cui la guerra in Ucraina ha solo fatto da acceleratore. L’importanza di questo specchio d’acqua, infatti, è evidente in quanto porta meridionale della Russia per accedere ai cosiddetti “mari caldi”. E questo comporta che Mosca abbia sempre avuto l’interesse a blindarne le coste e a sottoporlo al proprio controllo. Se questo era abbastanza chiaro durante la Guerra fredda, quando l’Unione Sovietica controllava di fatto buona parte di questo mare ad eccezione della costa turca appartenente alla Nato, ritenendo sostanzialmente un “lago” socialista condiviso con un partner necessario come Ankara, la questione si è rovesciata con la caduta del blocco comunista e il successivo allargamento dell’Alleanza Atlantica con Paesi che ora vogliono rafforzarsi dal punto di vista militare.
Il Mar Nero, infatti, si è trasformato nel tempo in uno specchio d’acqua sempre più conteso, dove agli interessi delle potenze rivierasche, spesso confliggenti l’uno con l’altro, si è aggiunto il tema della spaccatura tra Russia e Occidente. Uno scontro che si è ampliato naturalmente con lo scoppio della guerra in Ucraina e che certifica anche l’importanza del fronte marittimo per un conflitto che apparentemente non sembra intaccare questo tipo di dominio.
In realtà, a ben vedere, da un punto di vista strategico lo scontro per il Mar Nero è uno dei pilastri di questo conflitto, dal momento che la Russia ha avviato questo lungo conflitto con Kiev – iniziato ben prima del 2022 – con l’occupazione e successiva annessione della Crimea. La scelta di fare propria questa regione dove già c’era la base della flotta russa a Sebastopoli nasce dall’esigenza di Mosca di assicurarsi un bastione in quello specchio d’acqua che permettesse di manovrare liberamente fin oltre il Bosforo, assicurando i traffici commerciali diretti verso il Mediterraneo. La conquista della Crimea senza un corridoio sicuro che la collegasse alla nuova madrepatria è però sempre stato un pallino di Vladimir Putin, consapevole della difficoltà di assicurare il legame della Crimea con la Federazione solo con il ponte di Kerch. Quest’idea si è così palesata nell’invasione della parte meridionale del Donbass, dove l’occupazione dei territorio sulla costa del Mar d’Azov ha non solo assicurato questo piccolo specchio d’acqua alla Russia, ma ha permesso di unire via terra l’avamposto della Crimea.
D’altro canto, la partita del Mar Nero vede in questo momento non solo un’Ucraina sempre più impegnata sul fronte della guerra asimmetrica, combattuta grazie a un rapido sviluppo delle capacità belliche garantite dal sostengo occidentale, ma anche un ulteriore coinvolgimento Nato sotto diversi aspetti. Il controllo del Mar Nero è infatti assicurato non solo dall’appartenenza della Turchia all’Alleanza, ma anche da altri due attori non altrettanto potenti ma molto rilevanti: Bulgaria e Romania. L’ingresso di questi due Paesi nel 2004 ha blindato la costa meridionale e occidentale di questo mare, consolidando il pieno monitoraggio del Bosforo da parte del blocco occidentale. Il regime di passaggio degli Stretti turchi resta appannaggio di Ankara con la convenzione di Montreux, in cui non rientrano altri attori esterni ai Paesi rivieraschi. Al momento, ad esempio, la Turchia ha chiuso l’ingresso di navi militari al di fuori di quelle che rientrano nelle rispettive basi, escludendo di fatto l’accesso di nuove unità nel Mar Nero anche a scapito della flotta russa. Tuttavia, il segnale lanciato da Washington e Bruxelles è stato quello di evitare che Mosca potesse avere una piena libertà di manovra nelle sue attività navali, come dimostrato del resto dal dispiegamento di forze prima e dopo l’inizio della guerra e dalle esercitazioni che hanno consolidato questo aspetto. La più importante di essa è (era) Sea Breeze.
Baltico, il nuovo “lago” Nato
Un altro aspetto marittimo del conflitto tra Russia e Ucraina, ma in particolare della sfida tra Russia e Occidente è quello legato al Baltico. Qui la partita, anch’essa radicata ai tempi della Guerra fredda, si gioca su diversi livelli. Innanzitutto Mosca ha in questo mare una parte importante della propria flotta, quella appunto racchiusa nella flotta del Baltico. Attraverso i due grandi hub strategici su questo specchio d’acqua, Kaliningrad e San Pietroburgo, il Cremlino manovra le proprie forze su rotte sempre più ridotte ma sempre fondamentali. La libertà di manovra, ridimensionata soprattutto con il blocco dei cieli della regione, rimane in ogni caso un elemento necessario per la strategia russa, che specialmente per Kaliningrad implica anche la stessa sopravvivenza del bastione russo incastonato tra Polonia e Lituania.
Come per il Mar Nero, la questione per la Nato ha cambiato radicalmente prospettiva (e così anche per Mosca) con la caduta dell’Urss e la successiva scelta dei Paesi baltici di entrare a far parte dell’Alleanza atlantica e dell’Unione europea. Questo ha comportato un chiaro ampliamento delle prospettive baltiche della Nato, che prima ne era di fatto esclusa a causa dell’Urss, della neutralità di Finlandia e Svezia e della presenza di Repubblica democratica tedesca e repubbliche socialiste tra Polonia e Paesi baltici. Dal 1999 (ingresso della Polonia) al 2004 (Estonia, Lettonia e Lituania) per poi raggiungere il 2023 con l’adesione della Finlandia e, forse, della Svezia, i ruoli si sono completamente ribaltati. Il mar Baltico è diventato di fatto un “lago” del blocco euroatlantico, sovvertendo quindi quella condizione che lo rendeva una rotta privilegiata e sicura per Mosca ai tempi della Guerra Fredda.
Se questo è visibile sul piano politico e militare, non va dimenticato anche un altro aspetto della “guerra” per la regione, quello energetico. Questi Paesi, in particolare quelli ex socialisti, erano fino allo scoppio della guerra in Ucraina ancorati alla politica energetica russa, dipendendo in tutto o in parte dalle forniture di Mosca. Non solo: la Germania, proprio attraverso il Baltico, aveva costruito insieme alla Russia quel gasdotto Nord Stream – e successivo raddoppio – che costituiva l’architrave della partnership strategica tra Berlino e Mosca. Tutto questo è stato rivoluzionato dalla guerra. Il sabotaggio al gasdotto russo-tedesco ha sancito il distacco della Germania dal russo anche dal punto di vista fisico, simboleggiando la distanza tra questi due Paesi un tempo di fatto amici. Inoltre, l’inaugurazione del Baltic Pipe, gasdotto che unisce Norvegia e Polonia, ha sancito al contrario l’ascesa della partnership atlantica anche sul piano energetico, rafforzando i legami tra Oslo e la regione baltica. Nello stesso tempo, i Paesi dell’area si sono ampiamente proiettati sul gas naturale liquefatto, aprendo quindi il Baltico alle rotte delle navi per il trasporto del Gnl, costruendo quindi le basi per un pieno distacco dalla Federazione russa unito alla decisione di puntare sulle energie rinnovabili attraverso impianti offshore. Tutto questo implica non solo una rivoluzione strategica, ma anche la possibilità che il Baltico assista a una nuova sfida completamente diversa: quella per le infrastrutture sottomarine. Che inevitabilmente dopo Nord Stream sono diventate e potranno essere ancora di più in futuro un obiettivo.

Il Mediterraneo tra Nato, Russia e attori indipendenti
Nella battaglia per i mari europei, il Mediterraneo è certamente l’altro dei grandi teatri. Su questo punto va fatta una premessa importante: la sfida tra potenze si allarga a molti attori esterni all’Alleanza Atlantica. Tutta la costa meridionale è slegata dal blocco occidentale, idem quella del Mediterraneo orientale escludendo Grecia e Turchia. E questo comporta quindi un controllo e una capacità di controllo e influenza ben diversi rispetti a Baltico e Mar Nero, che di fatto sono una partita più o meno a due.
Questo non implica però che il Mediterraneo non sia al centro di una sfida che riguarda anche in questo caso Russia e Stati Uniti (questi ultimi attraverso la Nato). E lo dimostrano una serie di elementi. In primis, l’importanza assegnata da Mosca alla base siriana di Tartus, diventata un hub strategico fondamentale per l’agenda russa, ancora di più che la “chiusura” del Bosforo. Dall’inizio dell’appoggio di Vladimir Putin a Bashar al Assad, Tartus ha ripreso quota nella gerarchia militare del Cremlino fino a trasformarla in un elemento essenziale per il Mediterraneo e il Medio Oriente. E questo lo si è visto anche attraverso l’aumento dell’attività e della presenza di unità nel porto.
Il dinamismo russo si è accentuato nel corso degli anni fino a sfociare, dall’inizio della guerra in Ucraina, in una vera e propria esplosione dei movimenti delle navi e dei sottomarini di Mosca. Movimenti di cui hanno lanciato spesso avvertimenti anche della Marina Militare Italiana. Questi hanno più volte sottolineato come si sia sempre trattato di manovre regolari e non di minaccia, tuttavia, il segnale lanciato dalla Marina russa è stato spesso molto chiaro e si è assistito più volte a un’escalation di tensione anche con l’avvicinamento di queste unità a quelle atlantiche, soprattutto statunitensi.
Dall’altra parte dello schieramento, la presenza navale Usa e Nato è garantita da tutto il sistema atlantico che lega il cosiddetto fronte sud. Dalla penisola iberica fino alla Turchia, oltre alle basi britanniche di Cipro, l’intera costa settentrionale della Nato è oggi completamente coperta dall’ombrello atlantico. Una copertura garantita non soltanto dalla presenza statunitense, ma anche delle decisive capacità militari delle flotte delle potenze regionali. Spagna, Francia, Italia, Grecia e Turchia riescono infatti a garantire un monitoraggio costante ed efficiente dell’intero Mare Nostrum.
Diverso è il tema del fronte sud, dove la partita è, come detto, molto più complessa. Il caos libico resta ancora un punto interrogativo strategico, anche se la presenza turca ha in un certo senso imposto la presenza di un partner Nato a Tripoli insieme anche agli altri alleati occidentali (Italia compresa). La Cirenaica resta tuttavia un nodo irrisolto, con la Wagner che ancora oggi è presente nella regione. L’Algeria è uno dei migliori partner russi del Nord Africa, ed è un alleato strategico di Mosca confermato più volte da visite e accordi, pur avendo forti legami con l’Italia e l’Occidente. L’Egitto a sua volta ha una politica estremamente autonoma, in cui particolare rilevanza hanno gli accordi militari con attori molto eterogenei e anche la partnership con la Cina, potenza interessata al canale di Suez.
Israele a sua volta ha un’agenda specifica che coniuga legami con l’Occidente, alleanza con gli Stati Uniti, con una forte crescita della propria marittimità. Obiettivo questo fortemente connesso alla scoperta di importanti giacimenti di gas nel Levante e che hanno portato anche all’interesse dell’Iran di rafforzare la propria rete di proxy tra Libano e Gaza E anche in questo caso, la politica energetica, specialmente per quanto riguarda la parte orientale del Mediterraneo, può essere fondamentale per capire la grande partita sul Mare Nostrum, dove chiaramente ogni attore si comporta in modo da dare e avere garanzie non solo come alleato di un blocco più grande, ma anche per i propri interessi strategici nazionali, come dimostrato dal gioco della Turchia sul gas.