Nella periferia a nord di Mogadiscio, capitale della Somalia devastata da una lunga e violenta guerra civile, all’incrocio tra quella che un tempo erano via Imperiale e via 21 Ottobre, oggi rinominata “Wadada Warshadaha”, era un vecchio pastificio della Barilla.
Posto in una posizione strategica, quella vecchia fabbrica abbandonata è perfetta per diventare checkpoint per i soldati del contingente italiano che sono stati inviati Somalia nell’ambito dell’operazione a guida statunitense Unosom II: secondo intervento internazionale sancito dall’Onu per tentare di alzare un “cordone di sicurezza” in grado di proteggere gli aiuti umanitari inviati per arginare, o almeno alleviare, la dilagante carestia che si è scatenata nel corso della guerra civile che si protrae tra signori della guerra somali. Il posto di blocco, data la sua posizione naturale, prende subito il nome di checkpoint “Pasta”: una di quelle cose per cui noi italiani siamo famosi nel mondo; insieme al calcio, alla “mafia e al mandolino” dicono spesso gli anglosassoni. Insieme all’arte, culla della civiltà occidentale, sostiene qualcun altro, e a buon titolo. La missione è iniziata nel giugno del 1993, e vede una sostanziale modifica nell’ambito delle regole d’ingaggio da impiegare negli scontri che si sono già consumati con le milizie somale, in particolare modo con i guerriglieri fedeli al signore della guerra Mohammed Farah Hassan, più noto come generale Aidid, che in somalo significa il “vittorioso”.
Al pastificio, come al checkpoint “Ferro” – che insieme delimitano un’area urbana di 400 x 700 metri – montano la guardia e transitano militari di carriera e soldati di naja, e chiama alle armi giovani come Pasquale Baccaro, caporale di leva al 186º Reggimento paracadutisti “Folgore”, o vede impegnato al comando delle operazioni il generale di brigata Bruno Loi. Quella programmata per il 2 luglio 1993 dovrebbe essere una semplice missione di routine, “una passeggiata”. Il nome in codice è “Canguro 11”, e consiste nel transito di due colonne di mezzi corazzati italiani formati da carri pesanti M-60, veicoli da trasporto truppe Vcc-1 “Camillino” e alcuni blindati ‘Centauro’ – denominati Alfa e Bravo – che devono raggiungere un’area designata dove l’intelligence aveva individuato “caposaldi del clan degli haber ghedir”, tribù del generale Aidid, e portare a termine un rastrellamento per confiscare eventuali armi nascoste nel quartiere, tutte destinate ad essere impiegate contro il contingente internazionale che ha già subito numerose imboscate.
Qualcosa però non va come dovrebbe andare, i soldati italiani vengono accolti da una sassaiola che impedisce il proseguimento della missione in “sicurezza” e necessiterebbe l’intervento di rinforzi. I manifestanti mostrano il corpo di una donna morta, accusando i soldati italiani di aver “aperto il fuoco” e reclamando giustizia. Data la particolare natura della missione di peacekeeping – che non ha alcun tipo di intento “offensivo” – e portato a termine il rastrellamento, l’ordine è quello di rientrare immediatamente alla base per evitare di scatenare un vespaio inutile. Ma è troppo tardi, i miliziani somali sono stati informati della presenza di militari italiani in difficoltà e tendono un’imboscata a parte della colonna Alfa che viene bersagliata dal tiro dei cecchini e dal lancio di Rpg (lanciagranate portatile anticarro, ndr), proprio in prossimità del pastificio. I miliziani di Aidid, per quanto non siano di certo tiratori scelti, sono difficili da individuare e da eliminare, perché si nascondono tra la folla e usano donne civili come scudi umani.
Quando un colpo di Rpg riesce ad immobilizzare uno dei veicoli blindati, un “Camillino”, si registra la prima perdita, e la necessità di mandare indietro rinforzi per mettere in salvo i feriti e recuperare i superstiti che sono rimasti isolati tra la folla e delle barricate improvvisate, mentre sulle loro teste fischiano pallottole e razzi. Gli M-60 e i Centauro che erano ormai arrivati in prossimità della base di Balad, fanno dietrofront per intervenire al Pastificio. Contestualmente agli elicotteri d’assalto A-129 Mangusta viene dato l’ordine di convergere nel luogo dove si sta consumando lo scontro per fornire supporto aereo – nonostante sia difficile individuare i miliziani somali. Nel momento più difficile dello scontro, gli equipaggi degli M-60 sopraggiunti sul luogo sono costretti ad impiegare le mitragliatrici da 12,7 mm poste in torretta, e uno dei Mangusta lancia un missile anti-carro contro un mezzo blindato catturato dai ribelli. Sarà durante l’eroico soccorso dei compagni rimasti indietro, e cecchini colpiranno e feriranno a morte altri soldati italiani che passeranno alla storia come i primi ad esser impegnati in un combattimento dalla fine della seconda guerra mondiale.
Evacuati i feriti, la colonna ritorna alla base. Ma sul campo rimangono tre soldati morti: il sottotenente Andrea Millevoi, reggimento Lancieri di Montebello;il sergente maggiore Stefano Paolicchi, 9º Reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin”; il caporale Pasquale Baccaro, 186º Reggimento paracadutisti “Folgore”. Riceveranno tutti la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Caduti in missione di pace all’estero nel rispetto degli impegno ottemperato dalle Nazioni Unite e a salvaguardia della popolazione somala che si trovava in ostaggio della guerra di interessi tra il generale Adid e quelli di Ali Mahdi Mohamed.
Oltre venti saranno i feriti. Tra loro erano Gianfranco Paglia, ritiratosi dal servizio con il grado di tenente colonnello, allora caporale paracadutista del 183º Reggimento “Nembo”, e Giampiero Monti, sergente maggiore paracadutista cui verrà conferita la Medaglia d’argento al valor militare. Il tenente colonnello Paglia, impegnato nell’evacuazione dell’equipaggio dei blindati rimasti colpiti dall’imboscata, venne colpito da tre pallottole – una centra la spina dorsale costringendolo per il resto della sua vita su una sedia a rotelle. Nella nota ufficiale che accompagna il conferimento dell’onorificenza concessa nel 1995, si può leggere: “Dopo aver sgomberato con il proprio veicolo corazzato alcuni militari feriti, di propria iniziativa si riportava nella zona del combattimento e, incurante dell’incessante fuoco nemico, coordinava l’azione dei propri uomini, contrastando con l’armamento di bordo l’attacco nemico. Per conferire più efficacia alla sua azione di fuoco si sporgeva con l’intero busto fuori dal mezzo esponendosi al tiro dei cecchini che lo colpivano ripetutamente. Soccorso e trasferito presso una struttura sanitaria di Mogadiscio, reagiva con sereno e virile comportamento alla notizia che le lesioni riportate gli avevano procurato menomazioni permanenti. Chiarissimo esempio di altruismo, coraggio, altissimo senso del dovere e saldezza d’animo. Mogadiscio, 2 luglio 1993”.
Una dimostrazione che gli italiani “brava gente”, abituati come sosteneva Churchill: “a perdere le partite di calcio come fossero guerre, e le guerre come se fossero partite di calcio”, quando sono inviati a compiere il loro dovere, a tenere la posizione e a proteggere i loro compagni, non sono secondi a nessuno, per competenza e coraggio; nella Nato e nel mondo.