Secondo quanto riportano fonti della Difesa israeliane, l’Iran avrebbe cominciato il ritiro delle proprie forze dalla Siria chiudendo alcune basi da cui operavano le sue milizie che in questi anni hanno appoggiato la lotta al Califfato Islamico dell’esercito di Damasco. La notizia è stata riportata dal Times of Israel che riferisce anche di come gli attacchi delle Idf siano andati aumentando negli ultimi mesi.

Israele ha sempre colpito obiettivi iraniani in Siria ed in particolare la frequenza di questi attacchi è aumentata proprio nelle ultime due settimane: si contano infatti sette attacchi di cui l’ultimo, effettuato lunedì notte, ha eliminato 14 miliziani filoiraniani e personale militare di Teheran in almeno due raid che hanno avuto come obiettivi depositi di munizioni ad est di Aleppo e nella zona di Deir Ezzor.

Quella di questi giorni sembra proprio un’offensiva aerea a tutti gli effetti: Israele ha colpito anche venerdì scorso, in uno dei rari attacchi diurni effettuati dalle Idf, un altro deposito di munizioni nei pressi della città di Homs, nella Siria centrale. L’attacco non è stato rivendicato da Tel Aviv, come del resto da prassi consolidata salvo rari casi, e Damasco lo annovera come un “errore umano” causato da un trasporto di munizioni, ma anche al netto di queste ambiguità e spiegazioni di propaganda Israele ha dimostrato di aver notevolmente aumentato la pressione sull’Iran in Siria.

Lo stesso Naftali Bennett, ministro della Difesa di Tel Aviv, ha affermato, lo scorso martedì, che Israele è passata da “bloccare il trinceramento iraniano in Siria a costringerli ad andarsene, e non ci fermeremo”. Un messaggio che non è solo una rivendicazione non esplicita dell’escalation militare in corso, ma anche una dichiarazione di intenti sul futuro delle operazioni militari in Siria.

Con il mondo distratto dalla pandemia di Covid-19, Israele ha inasprito la sua lotta all’Iran nell’unico fronte in cui può attaccarlo direttamente: la Siria. La presenza iraniana a sostegno del regime di Assad è sempre stata vista come una forte preoccupazione dallo Stato ebraico a causa della possibilità di vedersi compiere il progetto della Mezzaluna Sciita di Teheran: non a caso la lotta all’influenza iraniana nella regione ha visto un’alleanza “strana” tra Tel Aviv e Riad per combattere il nemico comune.

La battaglia in campo aperto, sebbene terzo, di Israele all’Iran ha però subito due brusche accelerazioni: la prima quando gli Stati Uniti hanno stracciato unilateralmente gli accordi sul nucleare del trattato Jcpoa nel 2018, aprendo di fatto un nuovo teatro di crisi che periodicamente ritorna caldo come evidenziato dai sequestri di petroliere nel Golfo Persico o dagli attacchi dei proxy di Teheran contro l’Arabia Saudita, la seconda dall’eliminazione del generale Soleimani, il comandate della Forza Quds, le forze speciali delle Guardie della Rivoluzione (Irgc) dedite alle operazioni all’estero e particolarmente attive e preparate nei conflitti asimmetrici.

Qassem Soleimani era infatti un personaggio dal forte carisma ma soprattutto un raffinato stratega in grado di intessere rapporti privilegiati con chi poteva essere utile al progetto di costruzione di una sfera di influenza stabile di Teheran. Non è infatti un caso che il generale sia stato eliminato, quella notte di gennaio, poco dopo essere tornato da un viaggio in Siria.

Israele stessa ha cercato di eliminarlo in almeno una occasione quando il generale si era ritrovato a Beirut, la capitale libanese, per un incontro al vertice tra le forze sciite a cui erano presenti anche i vertici di Hezbollah insieme al comandante in capo dei Pasdaran, Hossein Salami. L’attacco, avvenuto all’alba del 25 agosto scorso, fallì ma Israele è stata ad un soffio dall’effettuare un attacco di decapitazione (in inglese decapitation strike) epocale.

Attacco che è invece riuscito agli Stati Uniti quella notte del 3 gennaio quando, insieme a Soleimani, rimase ucciso anche Abu Mahdi al-Muhandis, vice comandante delle Forze di Mobilitazione Popolari irachene, una milizia sciita filoiraniana, e fondatore di Kataib Hezbollah.

Ora l’Iran paga proprio l’onda lunga di quell’attacco di inizio anno: il carisma di Soleimani si è dimostrato un’arma a doppio taglio una volta sparito dalla circolazione e la trama di alleanze che aveva stabilito è andata sfaldandosi. L’effetto della sua assenza si è visto anche in Iraq dove l’Iran sembra avere meno voce in capitolo nelle decisioni di Baghdad pur al netto della forte presenza sciita nel Paese, che, lo ricordiamo, non è appiattita in toto su posizioni filoiraniane bensì inquadrabili più generalmente nel “patriottismo” quando si scagliano contro la presenza Usa.

La decisione di Teheran di cominciare il ritiro delle proprie forze militari è pertanto la diretta conseguenza di quell’atto di guerra che ha eliminato uno dei personaggi più importanti della politica iraniana, che alcuni ritenevano anche potesse ambire alla presidenza. L’Iran, del resto, era già stato fondamentalmente escluso dai giochi per la Siria, con la Russia e la Turchia che hanno gestito in modo unilaterale la situazione al nord e ad est dell’Eufrate interfacciandosi con gli Stati Uniti e di fatto mandando in soffitta gli accordi di Sochi, e l’uccisione di Soleimani ha solo accelerato questo processo.

Resta però un’incognita che è rappresentata dalla sorte delle milizie siriane filoiraniane che sono state armate dall’Iran in questi anni: se Teheran si ritira come si posizioneranno nel sempre complicato quadro del conflitto in Siria? L’Iran continuerà ad armare una milizia che oggettivamente non ha più la forza di essere uno strumento efficace per la strategia degli Ayatollah? Domande che al momento non hanno risposta ma che diventano fondamentali per capire quale potrà essere il futuro di un Paese che è in guerra dal 2011 e che, forse, non è nemmeno troppo dispiaciuto di vedere partire gli iraniani.

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