La domanda adesso è solo una: come e dove si vendicherà l’Iran. Fino a questo momento, le reazioni sono state politiche. Teheran ha minacciato (e giurato) vendetta, e ha annunciato di ritenere ormai superate tutte le clausole dell’accordo sul programma nucleare, svincolandosi da quel patto già infranto da Donald Trump. Il rischio è altissimo ma da più parti, in Iran, ritengono che sia arrivato il momento di colpire gli Stati Uniti con un’azione “militare”, confermando il rischio paventato da molti analisti e diplomatici che l’escalation potrebbe colpire gli interessi strategici americani in Medio Oriente partendo proprio dalle basi militari Usa o alleate.

Non una decisione facile. Colpire una base statunitense con il rischio di uccidere dei soldati impegnati all’estero significherebbe per l’Iran l’arrivo della contro-risposta Usa. E con un presidente come Trump che non ha esitato a far uccidere Qasem Soleimani è impossibile pensare che un tale attacco possa essere “accettato” da Casa Bianca e Pentagono. C’è chi ritiene che l’annuncio della ripresa (di fatto) del programma nucleare possa essere già la reazione della Repubblica islamica: ipotesi che potrebbe anche scatenare la reazione di Israele e degli alleati Usa nella regione col rischio di un attacco alle infrastrutture iraniane legate al programma atomico (attacco cyber o anche con un bombardamento chirurgico). Ma si può supporre anche che Teheran – in particolare i Pasdaran – possano vendicare Soleimani partendo dal cuore della sfida tra Stati Uniti e Iran: il Golfo Persico.

Lo stretto di Hormuz, choke point fondamentale per il traffico petrolifero mondiale, potrebbe essere il primo punto su cui potrà puntare l’Iran. E in molti ricordano la crisi delle petroliere di questa estate, quando i Guardiani della Rivoluzione hanno sequestrato alcune petroliere (risposta al sequestro da parte del Regno Unito di una super-cargo iraniana a Gibilterra) e quando il Golfo Persico si era trasformato in un vero e proprio fronte di guerra tra attacchi, rapimenti e esplosioni più o meno misteriose. La possibilità che il Golfo Persico (Mare arabico per gli Usa) possa di nuovo essere il teatro dello scontro è alta. A tal punto che anche H I Sutton, per Forbes, ha analizzato almeno dieci modi in cui l’Iran potrebbe attaccare le petroliere nel Golfo come risposta a quanto avvenuto a Baghdad con la morte del capo delle forze Quds.

L’Iran schiera nel Golfo una marina potente, oltre che doppia. Da una parte c’è quella statale, la Marina iraniana, erede di quella persiana. Una dottrina navale rivolta verso l’oceano, la necessità di tenere sempre aperto uno sbocco verso i mari e un legame forte ma meno diretto con la Rivoluzione. Dall’altra parte c’è la Marina dei Pasdaran, che invece ha il pieno controllo e il monitoraggio del Golfo Persico e che gestisce una flotta che si sviluppa quasi esclusivamente come forza di guerriglia navale: i suoi motoscafi, centinaia, possono colpire a sciami qualsiasi nave o flotta percorra le ricche rotte del Golfo. E la possibilità di proteggersi da un attacco simultaneo di decine di motoscafi leggeri (con a bordo molte volte mine anti nave) è scarsa.

Le (due) marine di Teheran si sono concentrare da decenni sullo sviluppo di una capacità di guerriglia in acque poco profonde. Incapaci di colmare il gap con il nemico americano, l’alternativa era quella di spostare il conflitto su altri fronti. E così è stato fatto. La flotta di sottomarini è estremamente numerosa, composta da mezzi piccoli ma molto reattivi e soprattutto di matrice nazionale. A questi si aggiungono i classe Kilo ceduti da Mosca e il Fateh, sottomarino made in Iran, che possono invece lanciare siluri nettamente più potenti rispetto ai 14 sottomarini di classe Ghadir. Molti pensano che questi siano utilizzabili dall’Iran per colpire petroliere, mercantili, mezzi militari, ma anche siti al di là del Golfo, come pozzi, raffinerie o addirittura basi Usa o degli alleati arabi.

Altra tattica che l’Iran potrebbe usare in questo momento è quella dei barchini esplosivi. Non una strategia di piccolo calibro: gli Hothi, avamposto sciita in Yemen, utilizzano da tempo non solo missili dalle postazioni costiere ma anche queste piccole imbarcazioni trasformate in ordigno. E la marina iraniana si addestra da tempo all’uso di queste barche (con o senza pilota) anche esercitandosi su portaerei americane (la Uss Truman è operativa nell’area).

Ipotesi che la marina degli Stati Uniti sta tenendo sotto controllo, anche perché sembra che il drone che ha lanciato il missile contro il convoglio di Soleimani sia partito da Al Udeid, in Qatar. Ed è il Golfo a dividere le basi dei Pasdaran dall’avamposto americano. Ma sono ipotesi che preoccupano anche un altro stretto di quello stesso settore: Bab el Mandeb. La porta del Mar Rosso è considerato uno dei possibili obiettivi della marina iraniana, visto che come Hormuz rappresenta un collo di bottiglia per il traffico mercantile e petrolifero da e per il Mediterraneo. Gli Houthi sono posizionati sulla costa yemenita di Bab el Mandeb e potrebbe offrire da subito basi per colpire le navi che solcano le acque tra Aden e il Mar Rosso. E non a caso l’Operazione Sentinella varata dagli Usa per la libertà di navigazione e l’Iran coinvolga sia Hormuz che l’altro stretto tra Africa e Penisola Arabica.

Missili e barchini esplosivi ci sono, ma in quel caso l’Iran non potrebbe sequestrare petroliere: un’idea che invece a Teheran potrebbe essere considerata a basso rischio di conflitto ma ad alto tasso di incidenza nel mercato dell’oro nero. Anche se il target che pensano al quartier generale dei Pasdaran non sembra essere esclusivamente economico: ci si attende, specie nei segmenti più impulsivi e arrabbiati, una risposta eclatante. La vendetta per Soleimani sarà più di un semplice sequestro. Ma un blocco navale a Hormuz sarebbe ben altro discorso.

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