La base di Atlit, in Israele, è uno dei luoghi più inaccessibili del mondo. Acque cristalline, macchia mediterranea e un castello crociato rendono questa porzione di territorio israeliano un vero e proprio gioiello di natura e storia. Ma nessuno può visitarlo. A pochi metri dalla fortezza di Atlit, infatti, sorge il quartier generale della più temibile unità della Marina israeliana: la Shayetet 13. Un’unità che ha visto la luce anche grazie al fondamentale apporto della Decima Flottiglia. Alcuni tra i migliori elementi italiani arrivarono in Israele allo scopo di addestrare gli uomini che avrebbero dovuto formare i reparti d’élite della Marina. Ma oltre agli uomini, la Marina israeliana importò dall’Italia anche mezzi e tecniche di combattimento: motoscafi, barchini esplosivi e tattiche di sabotaggio – le stesse che avevano terrorizzato la Royal Navy in tutto il Mediterraneo – adesso erano nelle mani dei comandanti dello Stato ebraico. Un “know-how” che servì alla Flottiglia 13 per compiere la prima vera grande operazione della sua storia: l’affondamento della nave egiziana Emir Farouk. Ad addestrare il gruppo di sabotatori c’era una vecchia conoscenza proprio della Decima: Fiorenzo Capriotti.

Questa premessa storica serve a farci comprendere l’importanza che ha sempre rivestito la guerra combattuta con questi mezzi da parte di Israele. E ci collega direttamente ai nostri giorni, con la crescente escalation tra lo Stato ebraico e l’Iran nelle acque che circondano il Medio Oriente. Il Golfo Persico, il Mare Arabico, il Mar Rosso e lo stesso Mediterraneo orientale sono diventati in questi ultimi anni dei veri teatri bellici a “bassa intensità”, dove si combatte un conflitto segreto e di fondamentale importanza che vede coinvolti i migliori reparti di Israele e della Repubblica islamica dell’Iran.

L’attacco denunciato ieri dai media israeliani – un missile avrebbe colpito una portacontainer di una società di Haifa mentre navigava dalla Tanzania all’India – è solo l’ultimo di una lunga catena di episodi. Il governo israeliano, già a fine febbraio, aveva accusato l’Iran di aver colpito un’altra nave, la Mv Helios Ray, costringendola a riparare nel porto di Dubai. Un episodio abbastanza oscuro, visto che le indagini proseguono e Teheran, ovviamente, nega qualsiasi coinvolgimento. Ma è un evento che si inserisce in una dinamica di guerra che non è certamente nuova, né per Israele né per l’Iran. Sia per quanto riguarda gli attacchi alle navi, sia per quanto riguarda i metodi.

Nelle scorse settimane, due inchieste, una del Wall Street Journal e una del quotidiano israeliano Haaretz, avevano appurato che almeno dal 2019 la Marina israeliana ha compiuto attacchi contro cargo iraniani diretti in Siria. Secondo l’inchiesta di Amos Harel, vi sarebbero state decine di attacchi di Israele contro petroliere e mercantili di Teheran. “Le navi salpano dai porti dell’Iran meridionale e attraversano il Mar Rosso, navigando nel Canale di Suez fino al Mediterraneo” ha spiegato su Haaretz, “il porto di destinazione è solitamente Banias, nel nord della Siria, che si trova tra i due porti più grandi della costa siriana, Tartus e Latakia”. In molti si sono chiesti come mai questi attacchi non siano mai stati denunciati da Damasco, da Teheran o dagli stessi comandi israeliani. La risposta potrebbe essere duplice. Da una parte Israele non avrebbe mai potuto ammettere di colpire navi nel Mediterraneo, vicino Suez e nel Mar Rosso perché avrebbe palesato un conflitto in un’area in cui transito migliaia di navi all’anno. Dall’altra parte, Iran e Siria non potevano confessare di eludere le sanzioni facendo passare navi cariche di petrolio, armi e altre merci di contrabbando. L’unica tacita ammissione, almeno per parte israeliana, è rappresentata dall’aumento esponenziale di onorificenze e medaglie per gli uomini della Marina: in assenza di campagne evidenti è possibile che dietro vi siano state operazioni segrete.

Operazioni in cui, molto probabilmente, è coinvolto proprio la Flottiglia 13, lo Shayetet. Come ha scritto Gianluca Di Feo su Repubblica, i commando “non avrebbero impiegato esplosivi, limitandosi a sabotare eliche, timoni e altri apparati delle petroliere”. Una scelta quindi conflitto a bassa intensità che però sarebbe perfettamente in linea con i metodi utilizzati dall’élite israeliana. E che sarebbero da ricondurre anche alla stessa escalation avviata dall’Iran nel Golfo Persico negli anni precedenti, quanto una serie di sequestri, sabotaggi e anche misteriose esplosioni avevano messo a serio rischio il transito navale nello Stretto di Hormuz. La differenza starebbe però nella segretezza. Il che molto probabilmente è dovuto anche al livello tecnologico raggiunto da Israele, che, per quanto riguarda le operazioni delle forze speciali è certamente tra i primi al mondo.

Una fonte qualificata ha espresso a InsideOver la possibilità che siano stati utilizzati anche semplicemente dei mezzi pilotati da remoto, senza necessità di sabotare la nave usando l’elemento umano. Questo le differenzierebbe delle forze dei Pasdaran che sono state invece individuate mentre piazzavano esplosivi sulla linea di galleggiamento di un obiettivo. Ma in ogni caso, ci spiega sempre la fonte, è importante considerare il tipo di sabotaggio. Un drone, o comunque un altro mezzo, può eventualmente applicare una carica esplosiva con sistema di fissaggio magnetico. Diverso il caso di sabotaggi di eliche e timoni, che invece tendenzialmente hanno bisogno dell’essere umano che svolge lavori complessi e soprattutto capace di reagire alle incognite della missione. Ovviamente questo tipo di attacchi può essere realizzato solo con una nave ferma in porto o distante dalla costa ma alla fonda. Per attacchi missilistici, invece, la nave può anche essere in navigazione. La nave israeliana Lori navigava nel Mare Arabico, mentre la Shahr e Kord navigava la largo della costa di Israele quando un incendio è divampato dai container.

In ogni caso, il conflitto clandestino rischia di trasformarsi sempre di più in una pericolosa guerra fredda che coinvolge una delle aree più importanti del mondo. L’amministrazione di Joe Biden rischia di essere impelagata in un conflitto a bassa intensità che rende tuttavia impossibile proseguire nelle trattive per trovare un accordo sul programma nucleare e missilistico iraniano. Mentre si moltiplicato i rischi che l’escalation vada a intaccare il commercio di petrolio, di gas liquefatto ma anche di merci. Lo abbiamo visto con Suez: basta niente per provocare un effetto domino molto pericoloso per il mondo. E in questo caso di mezzo non ci sarebbero solo compagnie mercantili, ma flotte militari a cui basta un solo errore per scatenare un incendio.





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