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“Sai, noi stiamo vivendo i sette anni di carestia annunciati dalla Bibbia, ma presto arriveranno quelli della prosperità”. Era il 2018, la guerra in Siria entrava nel suo ottavo anno e suor Yola Girges nutriva grandi speranze per il suo Paese. Dopo anni di attentati e battaglie, la Ghouta era appena stata liberata e Damasco – la capitale – era finalmente tornata sicura: niente più colpi di mortaio che piombavano sul quartiere cristiano di Bab Touma o razzi artigianali scagliati dai jihadisti dell’Esercito dell’islam sulla popolazione inerme. La riconquista della Ghouta ha visto l’esercito e l’aviazione siriana combattere aspramente, fino al controverso attacco chimico di Douma che piegò i ribelli e li costrinse a trasferirsi a Idlib, nel nord del Paese. Si poteva dunque sperare. Anche perché nel frattempo – a est – i curdi erano impegnati nella lotta contro lo Stato islamico, culminata con la sconfitta definitiva delle bandiere nere a Baghouz lo scorso maggio. Eppure, nonostante i tanti miglioramenti, il tempo della prosperità e della pace è ancora lontano. Così vicino e, allo stesso tempo, così lontano.

Basta guardare a nord, nelle terre controllate dai curdi. Qui – dopo dieci anni di crisi – i campi di grano erano finalmente tornati dorati e le spighe erano pronte per essere mietute. Eppure, in poco tempo, dei fuochi misteriosi hanno portato via tutto, comprese le speranze per un futuro un po’ più stabile. Intervistato dal Washington Post, Abbas al-Jaghjagh, che vive nella città di Tal Hamis, ha raccontato: “Siamo 24 in famiglia e ci aspettavano il miglior raccolto da dieci anni. Ora abbiamo perso tutto”. Un racconto molto simile a quello di un altro contadino – questa volta residente in Iraq – fornito ad Associated Press: “La vita che viviamo qui è già amara. Se la situazione continua così, direi che nessuno resterà qui”. Già perché questi misteriosi incendi stanno colpendo un’area immensa che si estende dai confini iracheni con l’Iran fino alle acque del Mediterraneo.

Le piste, dietro questi roghi, sono diverse, ma la rivendicazione è una sola – quella dello Stato islamico – che tramite Al Naba ha annunciato:

La stagione del raccolto è ancora lunga e diciamo ai soldati del Califfato: avete davanti della terra piantata con grano e orzo che ora è di proprietà di apostati

Lo stesso gruppo jihadista ha poi invitato i suoi miliziani ad appiccare ulteriori fuochi. Secondo Peter Schwartzstein, del Center for Climate and Security, il messaggio che il Califfato vuol dare è: “Se questa terra non sarà nostra, allora nessun altro potrà averla”. Ma c’è anche chi, come i curdi, ha puntato il dito – in verità senza grandi prove – contro Bashar al Assad: “Non possiamo dire che il regime e l’Isis stiano lavorando insieme – ha detto Salman Barudo, a capo del comitato per l’agricoltura curdo – ma condividono lo stesso interesse nel vedere fallire quest’area”. Infine, l’ultima ipotesi riguarda una possibile vendetta degli stessi curdi contro gli arabi che, negli scorsi anni, hanno deciso di aderire all’Isis. Come del resto spiega lo stesso Abbas al-Jaghjagh citato dal Washington Post: “Non sappiamo chi stia facendo tutto questo. Sono gli arabi? Non possiamo dirlo. Sono i curdi? Non possiamo dirlo. È il governo? Non possiamo dirlo. È la Turchia? Non possiamo dirlo. È qualcuno da fuori? Non possiamo dirlo. Ci sono molti nemici e nessuna prova”.

Quel che è certo è che la tranquillità, in questa parte di mondo, sembra esser perduta. Quasi per sempre.

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