“Un nonno è qualcuno con l’argento nei capelli e l’oro nel cuore”, recita un aforisma. Una descrizione che ben si addice a Latifa, una nonna marocchina che non ci ha pensato due volte prima di partire alla volta del Siraq per salvare i suoi nipoti.

“Mio figlio e sua moglie sono venuti in Siria senza il mio permesso” – racconta la donna – “Dopo circa otto mesi, sua moglie mi ha chiamato per dirmi che mio figlio era morto e mi ha chiesto di venire a prendere lei e i miei nipoti”.

È il 2015. Il figlio di Latifa, Husein Al-Giuli, 42 anni, parte alla volta dello Stato islamico portando con sé il figlio maggiore. La loro avventura nel Califfato, però, dura solo qualche mese. Entrambi rimangono infatti uccisi durante un bombardamento sulla città di Raqqa.

In viaggio verso il Siraq

Ricevuta la notizia della morte del figlio, Latifa prende immediatamente contatti con alcuni membri dell’Isis, con l’intento di negoziare lo scambio di nuora e figli. Il primo passo è la partenza per il Siraq. Ormai 60enne, nel 2016 abbandona il Marocco per raggiungere i territori del califfato.

Seguendo le istruzioni dell’organizzazione terroristica, la donna arriva in Turchia, dove soggiorna in un hotel per un paio di giorni. Qui, viene prelevata dai jihadisti e condotta a Raqqa.

Ma non le è concesso di vedere subito la famiglia del figlio. I terroristi cercano in ogni modo di convincerla ad abbracciare la loro causa. Di fronte all’ostinazione della donna, però, la isolano dal mondo esterno, ritirandole cellulare, passaporto e carta d’identità.

“Per un mese mi hanno fatto vivere in condizioni disperate, finché non ho perso la testa”, racconta Latifa. Dopo aver “pianto e urlato senza sosta”, i terroristi le consentono di riunirsi ai nipoti, il minore dei quali è nato proprio nei territori del califfato.

Il problema diventa ora il rientro in Turchia, tappa obbligata verso il Marocco. L’aiuto dei jihadisti non arriva. Costretta a rimanere a Raqqa fino all’ottobre del 2017 – quando la città viene riconquistata dalle Forze democratiche siriane (Sdf) -, Latifa viene poi obbligata, questa volta insieme alla famiglia, a seguire i jihadisti nella città siriana di Mayadin.

Solo sei mesi dopo, Latifa e i nipoti riescono finalmente a sfuggire all’Isis, abbandonando il villaggio di Al-Shaddadah per il campo curdo di Roj.

Abbandonata in Siria

Una storia di affetto ed eroismo, che, tuttavia non ha ancora trovato un lieto fine. La donna è ancora intrappolata in Siria, impossibilitata a lasciare Roj, situato nel governatorato di Al Hasaka, al confine nord-orientale del Paese.

Originaria di Fez, dove continua a vivere parte della sua famiglia, la donna chiede insistentemente alle autorità marocchine di aiutarla a tornare a casa. Tuttavia, come tanti altri foreign fighters e famiglie dell’Isis, anche Latifa e i suoi nipoti stanno affrontando il rifiuto del proprio Paese d’origine a farli rientrare in patria.

Marocco e terrorismo

Sarebbero almeno 1.668 i marocchini unitisi alle fila dello Stato islamico negli ultimi anni, secondo quanto affermato nel dicembre 2018 da Abdelhak Khiame – direttore del Central Bureau of Judicial Investigations (Bcij), ramo giudiziario del servizio di intelligence marocchino -.

Con un tale contingente di militanti, il Marocco è considerato uno dei principali “esportatori” di foreign fighter, dei quali solo un piccolo numero sarebbe già rientrato in patria.

Nonostante il rischio di attentati sia abbastanza basso all’interno del territorio nazionale, il Marocco non è rimasto immune alla recente ondata di radicalizzazione promossa dallo Stato islamico. Una minaccia persistente nel Paese è infatti la presenza di piccole cellule terroristiche indipendenti, per la maggior parte ispirate all’organizzazione jihadista.

Non solo: come molti Paesi, tra i quali anche quelli europei, dopo la sconfitta territoriale dello Stato islamico, anche Rabat sta affrontando la questione del rimpatrio dei propri foreign fighter.

Lo scorso mese, il Marocco si è distinto per aver accettato il rimpatrio di otto cittadini detenuti nei campi curdi, dopo essersi uniti all’Isis. Una volta in patria, sarebbero stati indagati per “sospetto coinvolgimento in atti legati al terrorismo“.

Latifa spera almeno in un rimpatrio che le consenta di riportare i nipoti a casa, dando loro la possibilità di crescere sani e salvi nel suo Paese d’origine.

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