Prende un’improvvisa ed un’inaspettata piega verso la sua risoluzione la crisi politica in corso in Iraq dal 12 maggio scorso, da quando cioè il Paese si è recato alle urne per eleggere il nuovo parlamento. Dopo mesi di trattative e contrattazioni, oltre che tensioni dovute sia alle mai del tutto sconfitte sacche dell’Isis e sia ad un clima sociale ed economico decisamente difficile, adesso pare che a Baghdad tutto sia pronto per la fumata bianca.
L’Iraq ha un nuovo presidente
Nulla può dirsi scontato in Iraq, per cui anche se il nuovo capo di Stato risulta essere la figura eleggibile con meno “sorprese” rispetto a quelle dell’esecutivo, a Baghdad in tanti da settimane sono pronti a scommettere su un flop delle votazioni. Il presidente della repubblica è una figura rappresentativa nella costituzione approvata nel 2005 e, per legge, il ruolo deve essere affidato ad un esponente curdo. Ad eleggere il capo dello Stato è il parlamento il quale, dopo l’insediamento a seguito della convalida dei risultati del 12 maggio scorso, ha fissato per il 2 ottobre la seduta utile per le votazioni presidenziali. Tradizionalmente il presidente viene scelto tra i membri del partito curdo denominato Puk, ossia il rivale del Pdk di Barzani. Pur tuttavia anche quest’ultima formazione politica ha presentato un proprio candidato, circostanza questa che ha fatto credere a molti un possibile ennesimo impasse anche per l’elezione del presidente.
Alla seconda votazione però, grazie a 219 preferenze, il candidato del Puk è riuscito a spuntarla. Dunque il nuovo capo di Stato iracheno è Barham Saleh. Curdo nativo di Sulaymaniyya, feudo del Puk e della famiglia dell’ex presidente Talabani, Saleh ha 58 anni ed è tornato in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein. Prima infatti, il neo presidente risulta essere in esilio a Londra in quanto entrato già da giovane in contrapposizione con il partito Baath. Dal 2009 al 2012 Saleh è stato capo del governo della regione autonoma del Kurdistan, adesso per lui arriva il compito di presidente. Il candidato del Pdk a lui contrapposto, Fuad Hussein, non è riuscito a fare breccia tra i partiti sciiti.
L’incarico di primo ministro affidato ad Adel Abdul Mahdi
Per garantire rappresentanza a tutte e tre le principali componenti dell’Iraq, ossia sciiti, curdi e sunniti, se la carica di presidente spetta ad un curdo, quella di “speaker” del parlamento deve andare ad un esponente sunnita. Ma l’incarico principale, ossia quello di primo ministro e guida dell’esecutivo, dal 2005 va ad un esponente sciita. Il neo capo di Stato Saleh, anche se ha 15 giorni di tempo per affidare l’incarico di premier, non ha voluto perdere tempo: il designato è Adel Abdul Mahdi. Sciita per l’appunto, la sua figura emerge quasi all’improvviso, così come repentino appare essere l’incarico affidato dal presidente. In pochi si aspettavano uno sblocco così veloce della crisi politica. Mahdi adesso ha trenta giorni di tempo per presentare la lista dei ministri al presidente e ricevere ufficialmente l’incarico di primo ministro, diversamente si cercherà un’altra figura.
Ma questa volta il governo sembrerebbe davvero in procinto di nascere. Mai dalla caduta di Saddam Hussein è intercorso un lasso di tempo inferiore alle 24 ore tra l’elezione di un nuovo presidente e l’incarico ad un primo ministro. Segno evidentemente che l’equilibrio tra le forze politiche a Baghdad è stato trovato. Mahdi è nato nel 1942 e proviene da una famiglia impegnata da sempre in politica. Suo padre infatti ha ricevuto diversi incarichi da Re Faisal, il monarca poi deposto a favore della nascita della repubblica. Il percorso politico di Mahdi appare contrassegnato da diversi orientamenti: se infatti risulta iscritto al partito Baath negli anni ’60, condividendone i propositi di laicizzazione e modernizzazione del paese, successivamente il nuovo premier incaricato va in esilio a Parigi proprio perchè in contrasto con il partito di Saddam. Studia economia e sembrerebbe avere simpatie per le idee marxiste, tanto da iscriversi (sempre in esilio) al Partito Comunista Iracheno.
La rivoluzione Khomeinista affascina Mahdi e, nonostante l’adesione alla dottrina del marxismo, decide di appoggiare la nascita della teocrazia sciita a Teheran nel 1979. Si trova proprio in Iran negli anni ’90, quando prende l’incarico di rappresentante nel paese di Khomeini dell’Isci, ossia il Supremo consiglio islamico iracheno. Caduto Saddam, Mahdi torna in Iraq e ricopre diversi incarichi nei vari governi succedutisi in questo periodo. Fino al 2016 è ministro del petrolio del governo Al Abadi, prima di rassegnare le dimissioni. La sua figura è la perfetta convergenza tra Moqtada Al Sadr ed il movimento filo iraniano Fatah, i due principali partiti sciiti che hanno vinto le elezioni. Al Sadr infatti ha portato avanti una lista assieme al Partito Comunista, ex partito del premier designato, Fatah è legato all’Iran e dell’Iran è profondo conoscitore lo stesso Mahdi. In più la sua carriera da ministro lo presenta come un “moderato” ed affidabile, anche se non sono mancate polemiche sul suo operato alcuni anni fa.
Baghdad potrebbe nuovamente guardare verso Teheran
Subito dopo il 12 maggio l’impressione nella capitale irachena è quella di un’impossibilità di accordo tra i due principali partiti sciiti. Accomunati dalla critica alla classe dirigente attuale e dal contrasto alla corruzione, il movimento di Al Sadr e quello nato dalle milizie sciite anti Isis sono distanti sulla politica estera. Al Sadr nel 2017 si è recato in Arabia Saudita, segno di un graduale distaccamento dall’Iran. Le milizie anti Isis sono invece il braccio di Teheran sull’Iraq, esse vengono pagate ed armate dal governo iraniano. Se dunque Al Sadr chiede la fine delle presunte ingerenze iraniane, Fatah appare come coalizione collegata all’Iran. Ecco perchè in molti pensano ad un accordo tra Al Sadr ed il premier uscente Al Abadi, con quest’ultimo fautore di una politica equidistante da Arabia Saudita ed Iran.
Per di più nel sud dell’Iraq l’estate appare caratterizzata da proteste spesso degenerate in slogan anti Teheran, come dimostra l’assalto del consolato iraniano a Bassora del mese scorso. Invece le carte sembrano essersi improvvisamente rimescolate. Il movimento di Al Sadr e quelle delle ex milizie sciite convergono su alcuni punti e riescono a stringere in pochi giorni l’accordo. A convincere Al Sadr ad attuare una svolta in tal senso, sarebbe stato un suo recente viaggio in Libano. La sua famiglia ha origini nel paese dei cedri, lì avrebbe incontrato anche il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Trovata l’intesa sul nome di Mahdi, adesso nei prossimi giorni il nuovo esecutivo iracheno potrebbe vedere definitivamente la luce. Ma è chiaro che, se l’operazione va in porto, il governo di Baghdad potrebbe nuovamente vedere nell’Iran un importante punto di riferimento. Dalla caduta di Saddam, Teheran ha trovato importanti sponde in un Iraq governato da liste sciite anche se, durante l’ultima campagna elettorale, le intenzioni di molti stessi candidati sciiti sembravano orientate quanto meno ad un “raffreddamento” dell’alleanza con l’Iran.
A prescindere da chi guiderà l’esecutivo, il prossimo governo dovrà affrontare una situazione allo stremo: nel nord non è iniziata la ricostruzione post Isis, nel sud mancano i servizi più elementari. L’insofferenza della popolazione è la prima sfida del prossimo primo ministro.