Esiste una (apparente) divergenza di letture sugli sviluppi della guerra in Ucraina. Da una parte, molti analisti sottolineano l’inadeguatezza del dispositivo militare russo schierato nella cosiddetta “operazione militare speciale” di Vladimir Putin. Un esercito lento, vecchio, farraginoso e che ha dimostrato, nel lungo corso delle operazioni, tutte le lacune di un’armata ancora costruita sul modello sovietico. Un conflitto che avrebbe portato al sacrificio di migliaia di soldati, in larga parte giovani, e che ha costretto i generali russi a doversi recare direttamente sulla linea del fronte per gestire in loco la campagna militare con continui cambi di direzione. Dall’altra parte, esiste però un’altra lettura – non necessariamente confliggente con la prima – che impone una visione diversa della conduzione della guerra. Questa seconda visione si basa su un dato di fatto che al momento appare incontrovertibile: Mosca continua ad avanzare. Inesorabilmente, lentamente, anche con tutte le difficoltà prodotte dalla resistenza ucraina unita al sostegno dell’Occidente.

A confermare questo scenario di una campagna militare molto lenta ma non per questo meno incisiva è l’Institute for the study of war, think tank che analizza anche la cronaca della guerra con report costanti. Quello del 22 maggio, per esempio, segnala un dato interessante, e cioè che le forze russe hanno riconquistato Rubizhne nell’oblast di Kharkiv, stanno cercando di rinforzare la presenza sulla riva occidentale del fiume Siverskyi Donets al fine di impedire ulteriori manovre ucraine “che potrebbero minacciare le linee di comunicazione russe verso l’asse di Izyum”. Il rapporto, inoltre, ricorda come fonti ucraine abbiano confermato le avanzate russe nell’area di Popasna e per molti osservatori, adesso l’obiettivo è quello di realizzare un complicato accerchiamento di Severodonetsk.

Questi ultimi aggiornamenti si devono unire agli avvenimenti che si stanno concretizzando in altri settori dell’avanzata russa in Ucraina. La caduta definitiva di Azovstal ha posto fine al dispiegamento forzato di uomini intorno all’acciaieria di Mariupol, permettendo così un nuovo schieramento di forze in settori più importanti sotto il profilo strategico rispetto al sito metallurgico della città ormai conquistata. Il Mar d’Azov in questo momento è chiuso alle forze ucraine. La regione di Kherson, fondamentale nella strategia russa sia sul piano simbolico che geostrategico visto che blinda la Crimea rassicurandola anche sotto il profilo idrico, è lentamente penetrata dall’armata di Mosca tanto che adesso il nuovo governatore russo è pronto a far circolare il rublo.

Il segnale, in buona sostanza, è che gli obiettivi della cosiddetta “fase due” della guerra in Ucraina, decisamente meno velleitari e esaltati dalla propaganda russa, non siano più così remoti. Il consolidamento delle posizioni considerate minime dell’avanzata russa, cioè mantenimento e rassicurazione di Crimea e repubbliche popolari di Donetsk e Luhanks, appare ormai certo, a meno di un ulteriore deciso impegno Nato a sostegno della controffensiva di Kiev. Ipotesi che per le alte sfere ucraine potrebbe concretizzarsi a giugno inoltrato, una volta ottenuta una nuova tranche di armi e sistemi provenienti dal blocco euro-atlantico. Ma nel frattempo, la Russia potrebbe avere messo in sicurezza tutta quella fascia che va dal Donbass alla Crimea fino a minacciare i dintorni di Odessa. Lo stesso presidente Zelensky, citato da Ukrainska Pravda, ha dovuto ammettere che per riconquistare la Crimea si rischierebbero centinaia di migliaia di vite umane.

Vista l’attuale condizione delle forze in campo, rischia dunque di confermarsi quanto sostenuto da molti analisti sul ruolo fondamentale del tempo. Un fattore che secondo alcuni giocherebbe (o avrebbe giocato) in favore dell’Ucraina, perché le chance di Putin di chiudere la guerra in poche settimane – con un numero di vittime e costi economici più ridotti – è ormai diventato impossibile. Per altri, al contrario, il tempo gioca paradossalmente proprio in favore del Cremlino, perché a questo punto la Russia sa di poter vincere anche con un arco temporale molto più ampio.

Questo è dovuto soprattutto al fatto che nel conflitto si sono aperte diverse finestre di opportunità che hanno deciso la guerra, in un senso  o nell’altro. Putin avrebbe stravinto se avesse conquistato Kiev nell’arco di pochi giorni come paventato da alcuni. Una vittoria-lampo con la caduta di Zelensky avrebbe rappresentato, a detta di molti osservatori, il vero obiettivo della cosiddetta “operazione militare speciale”, perché avrebbe ottenuto il massimo risultato col minimo sforzo. Le cose però sono andate diversamente: Kiev ha resistito e la prova è stato il disastro dell’assalto all’aeroporto con le truppe aviotrasportate. Un sacrificio che pesa come un macigno sulla campagna di Mosca.

La seconda finestra di opportunità si è aperta invece per l’Ucraina, ed è stata quella delle settimane e primi mesi successivi all’inizio del conflitto. Quello era il momento in cui la sconfitta della Russia appariva quasi prossima. Le sanzioni iniziavano a calare come una scure su Mosca, mentre i morti non potevano più essere oscurati dalla censura russa. L’assedio di Kiev era terminato con un nulla di fatto, e le accuse dei crimini perpetrati dai russi una minaccia mediatica devastante. A tutto questo, si aggiungeva un’unità di intenti occidentale molto più granitica e un isolamento russo che appariva asfissiante. Una condizione di debolezza che si univa alle prime grandi falle delle forze armate russe, culminate con l’affondamento dell’incrociatore Moskva.

Ora, dopo tre mesi, il tempo sembra giocare invece di nuovo in favore di Putin. E questo per la Federazione Russia si trova in una posizione garantita proprio dallo scorrere delle settimane. Mosca sa di avere più uomini e più mezzi a disposizione rispetto a Kiev, anche se non dei migliori reparti. Il Cremlino, così come anche la presidenza ucraina, è consapevole che non si ritirerà dai luoghi occupati. E che comunque non lo farà senza avere devastato un Paese o intere regioni. Il golpe, spettro agitato dall’Occidente, ha proprio nella sua origine mediatica la più grossa debolezza, perché significa non avere presa sulla popolazione. Le sanzioni iniziano a pesare ma anche su chi le realizza, come dimostrato dai tentennamenti europei sull’energia. E l’onda della disperazione per i primi caduti si è ridotta di fronte a una propaganda che martella sul fatto che la Russia sia di nuovo sotto assedio, sola contro il mondo. Putin non sta vincendo come avrebbe voluto, ma non sta nemmeno perdendo. E questo, in fin dei conti, non lo fa sentire in trappola né solo di fronte al destino imposto al proprio Paese: uno scenario che sarebbe stato decisamente pericoloso, visto che tanti, anche dagli Stati Uniti, hanno parlato di una via d’uscita del presidente russo per evitare di farlo sentire braccato.