Passate tre settimane dall’atroce massacro che ha risvegliato Israele il mondo con la consapevolezza che Hamas, la falange estremista e terrorista che infesta la Striscia di Gaza, aveva pianificato per due lunghi anni un eccidio indiscriminato degli israeliani che abitano la terra di confine, provocando 1400 vittime e prendendone in ostaggio almeno 200, l’offensiva terrestre, operazione per cui sono stati mobilitati 360mila riservisti delle Forze di Difesa israeliana, non è ancora iniziata. Si pensa rimandata; si ipotizza, in molti casi spera, addirittura annullata su consiglio degli Stati Uniti d’America – che dello Stato Ebraico sono i primi alleati e garanti – che attraverso gli emissari politici e militari del Pentagono avrebbero posto un veto.

Nel frattempo, i raid aerei delle forze aeree israeliane non smettono di tempestare la Striscia di bombe, registrando un forte aumento di intensità nella serata di ieri, e mostrando al mondo come i depositi di razzi e i covi di Hamas sorgano nel bel mezzo delle città: ragione per cui si registrano altissime perdite tra la popolazione civile. Si parla già di più di 5mila vittime collaterali. Questo, se si da credito alla promessa dei vertici israeliani intesi a snidare e distruggere Hamas ad ogni costo, potrebbe essere solo l’inizio: la punta di un iceberg che minaccia di galleggiare nel sangue.

Se non si tiene conto delle incursioni delle forze speciali israeliane all’interno di Gaza, incursioni che hanno l’obiettivo di raccogliere informazioni d’intelligence e portare avanti il piano di decapitazioni di Hamas in attesa della fase successiva dell’operazione Sword of Iron, appare evidente come l’invasione su larga non sia ancora iniziata. Nella notte tra il 27 e 28 ottobre Israele ha dato il via all’attacco più massiccio, con oltre 150 obiettivi colpiti. Raid senza sosta e ingresso dell’esercito nel nord della Striscia. Un blitz importante, ma non decisivo. Importante perché ha portato alla morte di altri capi di Hamas, come Atsam Abu Raffa ideatore degli attacchi coi parapendii del 7 ottobre. Non decisivo perché ancora isamo lontani dalla grande operazione di terra su vasta scala che dovrebbe sradicare in modo definitivo Hamas dalla striscia.

Il punto da analizzare ora è la ragione per cui questo impasse sta avendo luogo, e se si possa ritenere il piano di un’invasione su vasta scala davvero “annullato“, o solo rimandando al momento in cui Hamas avrà abbassato la guardie e invece l’Aman, vertice dell’intelligence delle Forze di Difesa israeliane forte della cooperazione con il Mossad e il resto della comunità d’intelligence reduce dallo scottante fallimento nel garantire la sicurezza, avrà raccolto tutte le informazioni necessarie a garantirsi il successo dell’operazione. Un’operazione che, come riportano alcune fonti dell’ambiente militare israeliano, potrebbe andare a vantaggio di una serie di operazioni di minore entità che prevedono di ottenere successi graduali, espandendosi per raggio e intensità. Come ha annunciato nella giornata di venerdì il porta voce delle Idf Daniel Hagari.

Tra alleati, mediatori e detrattori

La principale preoccupazione degli Stati Uniti è che il conflitto possa allargarsi a tutto il Medio Oriente, provocando la reazione di Hezbollah, la milizia sciita presente in Libano e Siria, e trascinando in un effetto domino anche l’Iran, vera potenza della avversaria nella regione. Il lancio di missili – neutralizzati da una nave da guerra americana che incrociava nel Golfo – da parte dei ribelli Houthi, milizia appoggiata sempre dall’Iran nello Yemen, ne è stato sentore. Sarebbe da attribuire a questo timore e questo genere di minaccia il rafforzamento della rete di difesa anti-missile annunciato in tutta la regione capo della Difesa statunitense.

Se da un lato la mediazione dei funzionari della Casa Bianca che ha aperto un canale di diplomatico con il Qatar, dimostrando come “la pressione americana” abbia qualche effetto sulla questione degli ostaggi – che per il governo Netanyahu rimangono la “massima priorità” – dall’altro le Nazioni Unite e l’opinione pubblica posta davanti alla straziante condizione della popolazione palestinese a Gaza, rischia di deteriorare i rapporti internazionali con Israele che, sentendosi abbandonata dagli alleati potrebbe anche “agire” senza tenere conto del delicato status-quo che mantiene da decenni i labili equilibri del Medio Oriente. Un’ipotesi remota, ma comunque degna di menzione.

Come ricordano dalle pagine dell’Economist, “Ogni guerra israeliana viene combattuta guardando l’orologio”. Se la condanna internazionale delle azioni militari pianificate per vendicare le atrocità del 7 ottobre e distruggere le capacità militari di Hamas trovasse ulteriore consenso nella comunità internazionale, Israele si potrebbe trovare in minoranza, il dissenso americano potrebbe ulteriormente spaccare il fronte interno al governo israeliano, già soggetto a una divisione nell’establishment militare, e frenare ogni operazione nella sola speranza che Hamas mantenga la parola data di “liberare gli ostaggi se Israele fermerà i raid sulla Striscia”. Uno scenario che difatto porterebbe a una normalizzazione che però vedrebbe Hamas nella parte del vincitore, sul campo di battaglia e sul piano degli equilibri internazionali. Un’eventualità che risparmierebbe decine, forse centinaia di migliaia di vite, e potrebbe davvero essere la più auspicabile; ma a quale prezzo per gli assetti futuri della regione più instabile del globo, considerate le aspirazioni di tutti coloro hanno dato il loro pieno appoggio ad Hamas nel richiamo collettivo del jihad?

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